Fa tremendamente caldo in questi giorni in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Temperature e umidità così alte non si registravano da almeno cinque anni. In questa estate torrida tre giorni fa 127 palestinesi, tra i quali decine di bambini, si sono ritrovati all’improvviso senza casa, senza un riparo, e non certo per una calamità naturale. Questa settimana sono riprese a pieno ritmo le demolizioni “di edifici e costruzioni illegali” su ordine dell’Amministrazione Civile che, per conto dell’Esercito di occupazione, gestisce l’Area C della Cisgiordania, ossia il 60% di questa parte di territorio palestinese sotto il controllo totale di Israele. Una ripresa delle demolizioni che si accompagna ai lavori di completamento del Muro israeliano a Bir Onah, nella valle di Cremisan, e a ridosso della cittadina palestinese di Beit Jala, a sud di Gerusalemme. In questa zona, popolata in alta percentuale da palestinesi cristiani, 58 famiglie stanno perdendo, nonostante le proteste anche delle Chiese locali, le loro terre e i loro ulivi. Anche ieri le ruspe hanno continuato a livellare terreni e a sradicare alberi.

 

Lunedì, su ordine dell’Amministrazione Civile, sono stati demoliti 22 edifici, tra baracche, abitazioni e ovili, in quattro comunità beduine che vivono nei pressi dell’insediamento colonico di Maaleh Adumim. Settantanove persone, tra cui 49 bambini, sono state lasciate sotto al sole. Martedì, l’Amministrazione Civile ha fatto abbattere altri 19 edifici a Fasail, nella Valle del Giordano, che, peraltro, non si trova interamente in Area C. Quarantotto palestinesi, tra cui 31 minori, sono rimasti senza un tetto. Non era mai accaduto in questi ultimi anni che tanti palestinesi perdessero la casa, sotto l’azione dei bulldozer israeliani, in poche ore. Motivo? Il rispetto della “legalità”, spiegano i funzionari dell’Amministrazione Civile. Quelle case, quelle baracche usate dalle quattro comunità – al Saidi, Bir el Maskub, Abu Falah e Wadi Sneisel, tutte nella zona di Khan al-Ahmar, con un totale di 400 persone – erano state costruite senza permesso. È una legalità a senza unico, fondata sulle leggi dell’occupante che definiscono illegali le abitazioni costruite dai palestinesi nella loro terra e, al contrario, legittime le colonie che i governi israeliani hanno sparso per la Cisgiordania occupata in aperta violazione del diritto e delle convenzioni internazionali. Non solo. Israele non include nella sua pianificazione in Area C le comunità beduine – in sostanza è come se non esistessero – e svolge una politica per trasferirle e concentrarle in determinate zone. Il fine è anche quello di avere più spazio libero intorno agli insediamenti israeliani e, infatti, sono i coloni che più di altri insistono per evacuare senza esitazioni le comunità beduine. Presa di mira è soprattutto la tribù Jahalin già costretta a lasciare le colline ad Est di Gerusalemme dove è stata costruita Maale Adumin, la più ampia delle colonie israeliane.

 

Contro questa ripresa delle demolizioni sono intervenuti ieri il Coordinatore delle attività umanitarie e di sviluppo delle Nazioni Unite per il territorio palestinese, Robert Piper, e il direttore dell’Unrwa in Cisgiordania, Felipe Sanchez. «Le implicazioni strategiche di queste demolizioni sono chiare perchè avvengono in parallelo con l’espansione degli insediamenti (colonici)» ha commentato Piper. Secondo il funzionario dell’Onu la delocalizzazione di queste comunità elimina la presenza palestinese dentro e intorno all’area E 1, una striscia di terra tra Gerusalemme e la Valle del Giordano che, se interessata da una nuova espansione delle colonie, taglierebbe in due la Cisgiordania vanificando le residue possibilità di creare uno Stato palestinese con un territorio omogeneo.

 

Ieri è giunta anche una buona notizia. L’Unrwa aprirà regolarmente le 700 scuole nei 58 campi profughi palestinesi sparsi tra la Cisgiordania, Gaza e i Paesi arabi circostanti. L’agenzia dell’Onu, che da 65 anni assiste i rifugiati palestinesi, ha comunicato di aver ricevuto in questi giorni donazioni per circa 80 milioni di dollari. Non coprono tutto il deficit di 101 milioni ma consentono comunque di mandare i ragazzi in aula all’inizio di settembre, come ogni anno.