Cerca musiche preziose piuttosto nascoste e all’Area Sismica le trovi. Pagine scritte per pianoforte da Anthony Braxton. A suonarle è convocato Ciro Longobardi, curioso di ogni «extraordinarietà», compresa l’improvvisazione radicale. Ma qui non c’è da improvvisare niente. Occorre scegliere alcune pagine tra le centinaia di cui sono composte le opere n. 30, 31, 32 e 33 del grande chicagoano (messe su carta tra il 1973 e il 1974) e renderle nota per nota. La scelta dei lunghi o meno lunghi frammenti, la libera alternanza e sovrapposizione di pagine prese da un’opera o da un’altra: questo si tratta di fare e dal risultato si capirà l’acume dell’interprete, la sua saggezza, la sua sensibilità, la sua spregiudicatezza, la sua singolarità.

Iniziano accordi lievi e «magri» in lenta successione in una zona limitata della tastiera. Debussy o Feldman nell’ombra? Di sicuro un amore dichiarato, quasi indifeso, per la dissonanza, come per un mondo stranamente rassicurante. Musicalmente si intravedono notturnità viennesi. E perché, volendo, non si potrebbe anche pensare a un Bill Evans (quello della partnership in Kind of Blue) estremizzato? Quando si accende nella pagina successiva, Braxton (Longobardi che preme l’interruttore) è gioia pervasiva. Prende i grandi cliché vivaci dell’avanguardia e neoavanguardia, di Webern e di Stockhausen, li assembla con il gusto del piacere, del vitalismo, magari «implicito», contenuto, che pochi compositori senza ascendenze jazzistiche possiedono in questa misura. E abbiamo le note isolate guizzanti e «il gatto che danza sui tasti».

Quello che a un certo punto è diventato accademia Braxton lo omaggia e lo trasforma utilizzando un’indomita – si vorrebbe dire istintiva – anti-accademicità. Improvvisamente entrano in scena sequenze di accordi morbidi-opulenti, con una affabilità che sembra provenire dai club di jazz o addirittura dai night-club più che dalle sale da concerto filarmoniche o dalle aule di Darmstadt. L’atonalismo libero però continua a dominare. Il felice criterio di Longobardi è la varietà dei materiali scelti e posti uno dopo l’altro. Si ascolta una suite tanto eterogenea quanto coerente.

Riappare una pagina di purissima avant-garde stockhauseniana e il tono è decisamente divertito. Più avanti è bellissimo quando Braxton con i bassi tiene un tempo senza tempo che però rimanda a una scansione del tempo come «antefatto», come «scena primaria», oppure come cassetta degli attrezzi di esperienze vive passate per compiere ulteriori esperienze altrettanto vive. Longobardi lo ha spiegato prima del concerto: Braxton utilizza anche richiami al walking bass. Spunta un canone barocco moderno. Una delizia assoluta che non ti aspetti. Viene in mente qualche passaggio del Mikrokosmos di Bartók oppure di certo Hindemith modernista neoclassico. Giochi di scale, esercizi distesi di studenti di musica in un pomeriggio di mezza vacanza.

È un’avventura a episodi quella a cui assistiamo. Un serial di 45 minuti con personaggi musicali diversi, tutti rigorosamente inseriti nel pensiero e nel piacere della contemporaneità. Questo Braxton degli anni ’70 del secolo scorso ci regala ancora gentili escursioni «a fior di tastiera», brillanti, pensose, radicalissime. Un Matthew Shipp ne riprenderà le modalità acustiche nell’anno 2000. Longobardi (co-autore a questo punto, per le sue scelte) è splendido in tutta la performance. Mai così virtuoso. Ispirato da Braxton e ispiratore di Braxton. Scrittore istantaneo di un Braxton che è lui stesso Longobardi e lui stesso Braxton. Una socializzazione dell’arte a due voci.