«Mi chiamo Maria Andrea Giraudo Baretto. Ho 38 anni, sono nubile e questa che racconto è la mia vita». La voce suadente di Lucia Mascino scorre su fotogrammi in bianco e nero: comignoli fumanti di fabbriche, ticchettio delle macchine da scrivere, il caos della città; in contrasto, filari di viti rigogliose, la raccolta dell’uva; primi piani di una donna in abiti novecenteschi. Come un fiume lento e tranquillo, le immagini si susseguono in un sovrapporsi di epoche e persone, creando un corto circuito che sembra sospensione onirica.

La redazione consiglia:
La rinascita delusa della bella gioventù«UN FILM seduta spiritica», lo definisce il regista Giovanni Piperno, «il tentativo di mettersi in contatto con delle vite che aspettavano di essere raccontate». Parliamo di Cipria, lungometraggio uscito nelle sale l’8 marzo, prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, che attraversa e dà luogo e corpi a storie vere di donne che riaffiorano, come fantasmi, dal secolo scorso. Il lavoro proviene da una lunga ricerca di Anna Villari, museologa, storica dell’arte, co autrice del film. Nell’archivio di Dino Villani, tra i più noti pubblicitari italiani, pioniere del marketing per immagini (Miss Italia viene dall’idea sua e di Zavattini di un concorso fotografico per sponsorizzare una marca di dentifricio), tempo fa incappò in una vicenda sconosciuta. Nel 1941 Giuseppe Visconti di Modrone, padre di Luchino, proprietario di una nota casa cosmetica, chiama Villani e Zavattini per lanciare sul mercato la cipria. «Velveris, velo di primavera». I due indicono un concorso «multimediale», protratto per ben due anni, dedicato alle donne italiane, invitate a inviare un breve racconto di «una vicenda romanzesca, un episodio curioso o interessante di vita vissuta, reale». Le storie premiate sarebbero state pubblicate su una rivista, trasformate in radio sceneggiati; la più bella sarebbe diventata un lungometraggio, «il film della vostra vita». Nella giuria, oltre a Villari e Zavattini, Alba De Cespedes, autrice, poetessa partigiana, Vittorio De Sica, Salvator Gotta, direttore dell’Istituto Luce.
Dai ritrovamenti di alcune delle storie sulla «Gazzetta illustrata», rivista settimanale della «Gazzetta del popolo» di Torino, Villari ha ricostruito tutta la vicenda. Nessuna traccia del film, probabilmente sospeso per l’inasprirsi del conflitto.

È QUI che inizia Cipria. Un viaggio immaginifico, lieve, di scavo e equilibrato montaggio, che si nutre di materiale di repertorio – quattro gli archivi usati, Luce, Homemovies, Cineteca sarda, Cinema d’impresa d’Ivrea, moltissimi quelli consultati dal regista –, a partire dalle storie (scritte) di tre donne. La protagonista, («Una donna che lavora», poi diventata «Vita ai margini», vincitrice del concorso) Maria Baretto, è la figlia di un ricco contadino che ha studiato: decide di trasferirsi a Torino come impiegata specializzata in un’officina meccanica. Fa carriera, rifiutando un matrimonio di convenienza e tenendosi stretta la sua indipendenza economica. Donata Falchi («Ciclone alla Filippine»), giramondo in cerca di un amore libero; Zefferina Bianco («La bimba del circo») è figlia di uno stupro: sua madre s’innamora di un circense che la adotta e la fa diventare la più piccola danzatrice e macchiettista d’Europa. Storie di donne in movimento, sorprendentemente emancipate e vicinissime a noi, nel rifiutare il modello preconfezionato e asfittico di un’epoca in cui «per un uomo era più facile accettare che una donna facesse tardi di ritorno dal parrucchiere, e non dal lavoro». Modernissimo anche il gusto di chi le selezionò, consegnando ai posteri frammenti inediti di vite vissute oltre ottant’anni fa, prima che il mondo cambiasse.