Ci sono storie che si infilano nei nostri pensieri attraversandoli in sezione, come lame nel burro. La storia che Lella Costa racconta è una di quelle. Inizia piano, perché le storie dei santi vanno prese con delicatezza, o si rischia di rovinare tutto, facendoli sentire lontanissimi. Come se, prima di essere santi, non avessero avuto delle biografie in buona parte simile alle nostre, che ci svegliamo la mattina, prendiamo il caffè e iniziamo a fare le nostre cose. Ma è quella percentuale di diversità dalle nostre vite, che ne ha fatto dei santi, ed è lì che bisogna andare a guardare, per capire e sentire. Lella Costa lo fa con la precisione dello studio e la grazia della passione e la lettura non vorrà interruzioni.

Il titolo del libro è l’inizio di una frase della Stein: “Ciò che possiamo fare, in paragone a quanto ci viene dato, è sempre poco”. Una frase lieve, sembra solo una cosa gentile da dire all’umanità, ma a ripensarla dopo aver letto il libro colpisce duro.

Edith Stein nasce nel 1891 a Breslavia (in allora suolo prussiano, oggi polacco) da una famiglia ebrea e la sua vita è costellata da decisioni epocali, come fosse spinta da una qualche forma di frenesia, di fretta, che la induce a non perdere tempo con ciò che le risulta inadeguato. Un talento straordinario per gli studi la porta, adolescente, prima ad abbandonare la scuola, poi a riprenderla con l’entusiasmo rinnovato da un anno di letture autodidatte, continuando fino ai livelli universitari. Dà prova delle sue qualità collaborando con Husserl e poi con Scheler, unica donna in un mondo di uomini, e infatti prontamente esclusa dalla possibilità di insegnare e di fare carriera. A dispetto di ogni logica, di ogni interesse dell’ateneo e di ogni legge vigente, nel 1919 le viene detto che no, non può insegnare: “L’ammissione di una Signora all’Abilitazione, incontra ancora difficoltà”. Ma l’annata lontano da scuola le aveva portato un’altra decisione epocale, quella di dichiararsi atea: ancora una volta fa il vuoto per capire, e attraversa gli anni senza dio (come ha fatto con l’anno senza scuola prima di abbracciare il suo talento per la filosofia) per approdare al cattolicesimo, folgorata da una religione che consente e incoraggia una relazione quotidiana, confidenziale e privata con un dio diverso da quello che aveva conosciuto da bambina. Qualche anno dopo la certezza delle sue scelte arriva a farle prendere i voti, ma intanto l’Europa sarà impazzita e il suo sangue ebreo conterà più di ogni suo pensiero e di ogni suo studio e di ogni suo progetto. Edith, suora di clausura, morirà nelle camere a gas di Aushwitz il 9 agosto del 1942, cioè appena arrivata nel campo di concentramento. Ci ritroviamo a sperare che nonostante il suo geniale cervello sia morta senza avere il tempo di capire, senza sperimentare l’orrore.

Lella Costa ci offre, quasi passandocelo di nascosto, un gancio di riflessione parlandoci, in questo libro, anche di un’altra donna, Babette, cuoca parigina protagonista di un racconto di Karen Blixen (e dell’onomimo film). Babette dirà, parlando del proprio talento: “Consentitemi di fare il meglio che posso!”. Ed è allora che torniamo a rileggere “Ciò che possiamo fare, in paragone a quel che ci viene dato, è sempre troppo poco”. Così cogliamo l’amarezza di tutti gli intelletti e le vocazioni che non hanno trovato, e non trovano, posto nel mondo, a causa del sangue, della pelle, dell’orientamento sessuale, del genere o del luogo in cui sono nati. Arte, bellezza, possibilità di capire e migliorare che quotidianamente il mondo si nega. Santi che ci camminano accanto.

Lella Costa, Ciò che possiamo fare, Solferino, Milano 2019 (126 pagine, Euro 9,90)