Il programma di «Cinema ritrovato» di quest’anno è talmente ricco che non vale neppure la pena di tentare di riassumerlo o ripercorrerlo, anche perché ci sono tante piccole cose nascoste in alcune sezioni che si rischierebbe di essere ingiusti. Un approccio al festival che di norma non verrebbe neppure in mente è quello auditivo, ovvero ragionare sulla musica che accompagna i film muti del magnifico programma del 1924, o le curiosità del 1904 che insieme vedranno interminabili code fuori del Lumiere, e poi naturalmente l’orchestra in piazza maggiore, i film musicali ecc.

In questo discorso uno spazio speciale è occupato dai sedici cortometraggi con protagonista Duke Ellington e i quattordici corti musicali del programma «Women in Jazz» della collezione Theo Zwicky, che promettono di essere una grande scoperta per intenditori e musicofili.

Tra gli eventi musicali in piazza, accompagnato da una colonna sonora originale composta da Daniele Furlati, My Cousin (1918) pellicola muta interpretata da Enrico Caruso nel doppio ruolo del cugino emigrato a Little Italy e del famoso cantante, l’unico testo visivo attraverso il quale possiamo apprezzare il lavoro del grande tenore sull’interpretazione naturalistica e persino sentirlo cantare Vesti la giubba, il primo disco a vendere un milione di copie nella storia dell’industria musicale. Un altro evento speciale è la serata dedicata alla colonna sonora firmata da Carl Davis per The Wind (Sjostrom, 1928) con una eccezionale Lillian Gish, prigioniera nel deserto di un duro pioniere del west ossessionata dal suono costante del vento con la sabbia fino ad impazzire- un capolavoro dell’era muta supportato energicamente da un’orchestra d’archi e percussioni diretta da Timothy Brock.

La musica gioca un ruolo importante anche in alcuni film sparsi nel programma come ad esempio le ballate di Leonard Cohen ne I compari. Negli anni Settanta noi, abituati a John Ford, Anthony Mann e Bud Boetticher siamo stati sedotti e davvero spiazzati dall’indimenticabile inizio di questo insolito western firmato dal grande innovatore dei generi cinematografici, Robert Altman. Una ballad triste si insinua nei titoli di testa sull’immagine di un insolito paesaggio innevato e fangoso, così poco western, attraversato da un uomo a cavallo-Warren Beatty- protetto da una pelliccia di orso che si toglie rivelando un elegante completo scuro, che si mette in testa persino una bombetta per fare effetto sui rozzi giocatori del saloon. Un altro western eccentrico dell’epoca ha beneficiato di un’insolita associazione musicale, Pat Garrett and Billy the Kid (Peckinpah) con Knockin’ on Heaven’s Door di Bob Dylan che compare in questo film teorico-critico sul genere americano per eccellenza nel ruolo di bizzarro testimone.

La lista delle musiche da film interessanti potrebbe continuare con i Tangerine Dream di Risky Business, le arie di Puccini cantate da Lynn Redgrave a fianco di James Earl Jones nell’insolito The Annihilation of the Fish diretto dal regista afroamericano Charles Burnett e con Wim Wenders, senza dubbio un autore per il quale canzoni e musica giocano un ruolo fondamentale nel racconto, come si può riscontrare nella sua collaborazione con Ry Cooder in Paris, Texas e con i musicisti cubani di Buena Vista Social Club, ora al cinema in versione restaurata. I cento anni della (Sony) Columbia si festeggiano anche con il restauro di Omicidio a luci rosse (Body Double) di Brian De Palma, regista che senza dubbio usa la colonna sonora con grande efficacia.

E poi ci sono i musical, se a questo genere si vuole ascrivere una pellicola che non ha avuto in Italia l’attenzione dovuta, Les Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy, con una romantica colonna musicale composta da Michel Legrand che accompagna un dialogo cantato, disobbedendo alle regole del verosimile con una macchina da presa che danza elegantemente intorno agli attori, nel momento in cui anche altri registi della Nouvelle Vague rivisitano il film cantato/ballato in stile noir, Godard con Bande à part, Truffaut con Tirez sur le pianiste, in programma al festival. Un regista altrettanto cinefilo, il Damien Chazelle di La la land e Babilonia, introdurrà Les Parapluies, che è stato restaurato da Mathieu Remy e Rosalie Varda-Demy.

Oltre a classici che non hanno bisogno di presentazione tra i film muti (quindi musicalmente accompagnati) della sezione «1924» segnaliamo The Boatswain’s Mate con Florence Turner, prima star della Vitagraph, svantaggiata in partenza dal fatto che i magnati dell’industria di allora, i rigidi imprenditori del Trust che circondavano Edison, non incoraggiavano il divismo per poter mantenere bassi i salari degli attori. E ancora l’epico Gosta Berlings Saga di Mauritz Stiller con Greta Garbo quando ancora si chiamava Gustaffson e, restando al muto al femminile, White Water firmato da Nell Shipman, attrice, produttrice indipendente, sceneggiatrice e montatrice canadese, girato nel suo studio in contatto diretto con la natura e gli animali.

I film all’aria aperta costituiscono un genere per nulla insolito nel muto, poiché la pellicola necessitava di molta luce per essere fotografata e si girava quindi spesso in paesaggi campestri. In particolare questo episodio della serie Little Dramas of the Big Places è ambientato in una fattoria in cui Dreena (interpretata da Shipman) vive tra animali domestici e selvatici e con l’aiuto del suo cane salva due fratellini orfani dalle rapide che danno il titolo al film.

Questa è l’ultima pellicola che Nell gira prima del fallimento del suo studio che la costringe a lasciare i suoi animali nello zoo di San Diego. Suo marito, il produttore indipendente canadese Ernest Shipman, davanti alla crisi della loro casa di produzione si affaccia sul mercato italiano, dirigendo e producendo Sant’Ilario, tratto da un romanzo storico ambientato in Italia, di un autore molto frequentato allora dagli adattatori, Marion Crawford. (Il capitolo delle molte produzioni nordamericane girate in Italia negli anni Venti, che non si limitano affatto al Ben Hur del 1925, richiederebbe una attenta rilettura perché testimonia come il cinema italiano muto fosse, assieme a quello francese, assai popolare negli Stati Uniti e fungesse da modello produttivo, soprattutto per i film in costume).

Se ci si perde comunque nel magmatico programma di «Cinema ritrovato», si consigliano tre titoli rari: Johnny Got His Gun, unica regia del grande sceneggiatore Dalton Trumbo protagonista un moncherino umano che è la più crudele condanna della guerra, Los Golfos un romanzo di formazione di ragazzi spagnoli firmato da un giovane Carlos Saura e The Talk of the Town (George Stevens, 1942), un triangolo amoroso con impulsi democratici, costituito da Cary Grant e Ronald Colman, con in mezzo Jean Arthur .
Di grandissima attualità Sbatti il mostro in prima pagina, un cattivissimo Bellocchio del 1972 che testimonia la lunga lotta contro l’inquinamento politico della stampa nazionale.

Giuliana Muscio

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Le fate della musica risvegliano il pubblico
di Donatella Fumarola

Per molto tempo siamo stati abituati ad assistere a proiezioni di film muti con accompagnamento al pianoforte, più raramente da un’orchestra. In Occidente almeno. Con poche eccezioni – di cui la più celebre è Metropolis di Fritz Lang (del 1927) per il quale nel 1984 Giorgio Moroder ha composto una colonna sonora pop-rock.

Più di recente, grazie anche alla complicità di alcuni cinetecari e curatori audaci, una nuova generazione di musicisti e compositori ’sperimentali’ si è confrontata con il cinema muto, con la sua lingua ingannevole, col suo ritmo inesorabile (anche quando sembra assente), con la sua luce, i suoi abbagli.
Rompendo inevitabilmente l’equilibrio su cui la relazione cinema muto – musica si poggiava. E forse rompendo anche qualcosa che ha a che fare con la nostra percezione di quella relazione, che rimane comunque arbitraria e occasionale, prendendo direzioni inattese rispetto al canone, assumendo distorsioni che ne svelano una diversa vitalità, rilanciandone, nella contemporaneità, l’inattualità paradossale e statutaria, la flagranza (la capacità quasi automatica, meccanica – il nitrato! – di deflagrare).

Quest’anno il salto di qualità fatto dal Cinema Ritrovato è quello di dare a questi esperimenti non ortodossi (condotti da musicisti di notevole talento e originalità) uno spazio non marginale (il cinema Modernissimo). Sarà l’occasione di assistere all’incontro, per esempio, tra i ritmi eccentrici di Valentina Magaletti, straordinaria percussionista e compositrice di origine pugliese di stanza a Londra, e le immagini di alcune pietre miliari dell’avanguardia di inizio ’900 come Au secours! di Max Linder e Abel Gance, Kino-pravda n. 18 di Dziga Vertov o il leggendario Ballet mécanique di Leger, tutti del 1924. O di scoprire le armonie sofisticate dell’arpista portoghese Edoardo Raon, che si presenta in due versioni: da una parte insieme a Matti Bye al piano accompagnerà La leggenda di Gosta Berling di Mauritz Stiller, dall’altra insieme a Donald Sosin, anche lui al piano, accompagnerà un programma di commedie (e tragedie) di coppia, a partire da Hot Water di Harold Lloyd, per finire con N+N+N di Vladimir Lebedev-Smidtgof (Raon nel 2013 ha realizzato a Lubiana una composizione per solo arpa e effetti di 5 ore, come colonna sonora dei rushes di Sayat Nova di Parajanov).

Un altro cortocircuito folgorante sarà di certo L’uomo che prende gli schiaffi, capolavoro hollywoodiano di Victor Sjostrom fresco di restauro, musicato da un quartetto eccezionale composto da Laura Agnusdei (sax tenore, elettronica), Simone Cavina (batteria, percussioni, elettronica), Antonio Raia (sax, chalumeau, oggetti) e Stefano Pilia, chitarrista che da anni lavora alla ritessitura sonora di film muti, da solo o in duo (con Paolo Spaccamonti, per esempio, con cui recentemente ha portato in tourné L’uomo con la macchina da presa di Vertov).

La raffinata ricerca sonora del trio bolognese OoopopoliooO – ovvero Tiziano Popoli (pianoforte, synth, elettronica), Valeria Sturba (violino, theremin, elettronica) e Vincenzo Vasi (basso, theremin, elettronica) si confronterà con due opere al femminile, White Water scritto, prodotto e diretto da Nell Shipman e The Boatswain’s Mate scritto da Lydia Hayward.

Nel denso programma bolognese non sono certo gli unici momenti di sperimentazione e di incontro inatteso, dinamico, tra cinema e musica, ma mi pare segnino più di altri un cambio di passo importante, foriero di nuove prospettive. Che marcano nello stesso tempo una grande e fondamentale differenza con la cultura dei «visuals» che non pochi musicisti di matrice elettronica usano come fondale scenografico, come alternativa ai «fumi e raggi laser» da cui Battiato ci metteva in guardia quasi mezzo secolo fa. Il modo in cui tutti questi musicisti (tutti piuttosto giovani) si rapportano al cinema, inserendosi dentro ai film (e non inserendo i film dentro la loro musica), con sapienza, con saggezza, fa la differenza. Non c’è decorazione, né da una parte né dall’altra. C’è interconnessione, dialogo, relazione dialettica.

Vale la pena evocare Henri Langlois, mitico fondatore della Cinemathèque française, a cui questi esperimenti sarebbero piaciuti, lui che nel 1969, portando per borghi e paesi della Francia rurale le proiezioni di film muti sulle pareti di vecchi edifici e palazzi storici, scrisse: «È tempo di riportare il cinema alla vita, è tempo che il cinema scenda in strada e in piazza, per sfuggire alle fate del male che lo hanno vestito di nero e di noia. È tempo che, come il teatro, il cinema riscopra il suo pubblico, quel meraviglioso pubblico che un tempo abbracciava tutto ciò che amavamo e che ora è solo addormentato».