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Cinema militante nel latinoamerica

Cinema militante nel latinoamerica

Intervista In maniera indipendente, con una vasta esperienza artistica e dopo aver compiuto lunghi viaggi, il regista racconta i movimenti che stanno cambiando il continente

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 1 agosto 2015

Ogni tanto Carlos Pronzato passa anche per l’Italia, terra di origine della sua famiglia piemontese trapiantata in Argentina. Il suo lavoro di documentarista militante lo ha portato porta in giro per il latinoamerica e ne ha evidenziato i punti nevralgici delle grandi trasformazioni contemporanee. Ha anche realizzato ritratti di personaggi della letteratura e della storia, dal Che in Bolivia, a Jorge Amado. L’unico ritratto di grandi personaggi che non ha ancora realizato è quello del padre, Victor Proncet che nel cinema argentino occupa un posto autorevole fin dagli anni sessanta come attore, sceneggiatore, autore di musica da film, ideatore, sceneggiatore e interprete, tra l’altro di Los Traidores, film del cineasta desaparecido Raymundo Gleyser). Anche la madre era una fotografa e artista plastica. In questo ambiente culturale incrocia il cinema internazionale, si laurea in regia teatrale, inizia a lavorare in teatro e nel cinema. Solo parecchi anni dopo aver girato per tutto il latinoamerica ed essersi trasferito in Brasile inizia a documentare quello che accade nelle strade: sono ormai classici i suoi Jallalla Bolivia, Evo presidente (2006) – significa «evviva Bolivia» – passato nel canale ufficiale della televisione Brasiliana, A revolta do Buzù (2003) la rivolta degli autobus, sugli studenti che a Bahia fermarono la città, dall’Argentina Madres de Plaza de Mayo, Memoria, Verdad,Justicia, i film sulle manifestazioni studentesche in Cile (A Rebelião Pinguina), sulla lotta dei Mapuche, (Mapuches, un pueblo contra el Estado, 2010).
Che tipo di distribuzione hanno i tuoi film. Te lo chiedo perché in Argentina c’erano sale specializzate nei documentari, è così anche in Brasile?
Ci sono varie possibilità e piattaforme, ci sono festival di indirizzo politico dove ho vinto dei premi e questo aiuta per produrne altri. Poi le televisioni dei vari paesi: in Argentina ci sono vari canali satellitari tematici, in Brasile oltre alla televisione ufficiale ci sono televisioni universitarie, comunitarie o governative. Poi c’è youtube dove ad esempio il mio film sul debito esterno brasiliano ha avuto 30 mila visualizzazioni. Un altro modo di diffonndere i film sono i dvd, quando ci sono proiezioni pubbliche in occasione dei dibattiti. In Argentina ci sono forti collettivi politici, non necessariamente partitici, in Brasile non ci sono, il cinema politico lo fanno con notevoli aiuti da parte dello stato, parecchia burocrazia e un certo stile da seguire, mentre io rivendico il fatto che per questo tipo di cinema ci vuole un altro tipo di finanziamenti, dal basso, senza dover sottostare a regole. Per esempio con il gruppo Mascarò in Argentina che sono riusciti ad avere appoggi per il montaggio. Io penso che questo tipo di cinema debba essere indipendente. Quando ad esempio la gente è scesa in piazza in maniera spontanea per protestare contro l’aumento delle tariffe degli autobus, protesta che poi si è estesa in tutto il Brasile, abbiamo fatto le riprese senza nulla, con minimi appoggi per il montaggio con gente che lotta nei movimenti sociali. Sono professionisti del settore come me, e militanti. Personalmente non ho una struttura, uno studio.
Perché hai deciso di trasferirti in Brasile?
Negli anni Ottanta ho viaggiato in tutto il latinoamerica, prima sono stato in Messico a studiare cinema e lavorare nel cinema, poi per tutto il continente Guatemala, Honduras, Salvador. Ho visto tante cose senza fare riprese, in Colombia sono stato un anno, poi in Perù, in Argentina e in Brasile a studiare teatro e dove mi sono trasferito definitivamente. Già facevo teatro con mio padre, grande drammaturgo, sceneggiatore e musicista. Dopo la laurea in regia ho ricominciato a fare fiction e dopo la fine degli anni ’90 ho cominciato a lavorare sul tema politico quando iniziarono le grandi mobilitazioni mondiali, a Seattle, a Genova nel 2001, la guerra dell’acqua in Bolivia. Per me la vera politica è quando la gente scede in strada. Terminava il periodo del neoliberalismo e contemporaneamente iniziava il processo progressista in America latina in Bolivia, in Equador. Ecco che tutti i miei viaggi nel latinoamerica degli anni ’80 si traducono in una politica possibile, mi interessa il tema della lotta popolare nella strada. Ho cominciato a vedere un legame tra i paesi dove ero stato. Non mi ha mai interessato la politica del partito (Perez Esquivel dice che si incontrano due argentini e fondano tre partiti). Iniziai a interessarmi ai movimenti autogestiti con la rivolta degli autobus a Bahia nel 2003 che diventa poi nazionale. All’inizio del 2000 quello che succede in Brasile succede anche nel latinoamerica. L’Mpl, il movimento pase libre si diffonde in tutto il paese. Li chiamano movimenti spontanei, ma ci sono voluti almeno dieci anni di attività, la gente si organizza in altro modo e non necessariamente in un partito. Ci attaccano dicendo che la politica deve essere svolta in un partito e nel parlamento altrimenti non serve a nulla, ma ci possono essere tanti altri modi nuovi, il mondo sta vivendo proprio questa trasformazione, in Turchia, Grecia, Spagna. Non so quale sarà il processo successivo. C’è una grande dinamica per il futuro. Se la caduta del muro ha dato via a un cambiamento a partire dalla primavera araba ci sono altri processi.
Dal latinoamerica quali segnali arrivano?
Nei paesi latinoamericani la Bolivia oggi ha un presidente progressista, il Venezuela è un altro caso, è morto Chavez ma il processo continua, l’Argentina ha un governo progressista, in Brasile ci sono state le elezioni e resta lo stesso partito. La lotta della gente non era contro il governo, ma contro il sistema, per trovare qualcosa di nuovo. C’è stato in Brasile un tentativo di mantenere i partiti, ma destra e sinistra sono molti simili, lo sanno tutte e due che la struttura del Parlamento non funziona più, serve solo per mantenere una sorta di «pax romana» e che le elezioni sono finanziate da imprese private che cercano i propri interessi attraverso i politici. Il governo alla fine sono le multinazionali. In Bolivia il popolo sostiene il governo in chiave non solo elettorale, ma anche in chiave etnica, in Cile c’è il caso dei mapuche che è quasi il caso inverso, dove il mapuche è tutto concentrato in un territorio, è un popolo che non ha voce come hanno gli indios in Bolivia, non hanno la possibilità di arrivare dove è arrivato Evo Morales. Il Cile ignora la questione, lo ignora come popolo anche se non come etnia e questo significa che non gli riconosce diritti. Il nostro documentario parla di questo. Il tema «Mapuche» è molto interessante perché è integrato con molte altre lotte sociali, hanno collegamenti con altri popoli in lotta. I mapuche si sono urbanizzati, ci sono professionisti, giornalisti, però hanno la loro lingua, rappresenta un riscatto di identità. In passato era vietato parlare o scrivere mapuche, come fino a poco tempo Franco in Spagna proibiva parlare il gallego.
Hai fatto una quantità di documentari, ma non solo politici, anche legati a personaggi celebri del latinoamerica
Ho lavorato sul Che in Bolivia, sulle opere di Euclides Da Cunha, molto famoso in Brasile, su Jorge Amado, su Vinicius de Moraes. Mi piacerebbe fare un lavoro su Julio Cortazar. Io lavoro molto sulla parola perché vengo dal teatro, ho scritto molti libri. A causa della precarietà del cinema che ho fatto, devo estrarre il massimo dell’espressività dalle interviste: mentre le immagini della strada, della polizia tutti le possono riprendere, mi focalizzo sulle persone che possono essere i grandi analisti ma anche la gente comune che si trova nella folla. Io faccio questo mescolanza, come il film del Che dove dono intervistati grandi storici della vita del Che in Bolivia, ma anche una contadina che racconta una storia fantastica.
Anche nel film su Allende, alla ricerca della sua casa di nascita a Valparaiso che nessuno ricorda dove sia, quasi una metafora dell’instabilità di un intero territorio dove il maremoto può cancellare la memoria e la storia spesso è cancellata.
Lì parlano i ministri e la gente che sta al bar e discute dove si trovava quella casa. Allende nacque a Valparaiso e fu iscritto a Santiago, per questo è tutto così vago. Tutto deve essere fatto in modo che non sia «televisione», nel documentario c’è un tempo esatto, tutto deve essere organizzato come un’opera compiuta.

 

NOTA BIOGRAFICA

Nato in Argentina, ha studiato teatro e cinema, negli anni ’80 ha viaggiato per tutto il latinoamerica e si è poi trasferito in Brasile dove ha iniziato la sua attività di documentarista. Tra i suoi numerosi film: Carlos Marighella, que es la samba, la samba, que no desaparece, Carabina M2, un arma americana, el Che en Bolivia, Las ollas de cocina, la rebelión argentina, Bolivia, la guerra del gas, Buscando Salvador Allende, Madres de Plaza de Mayo, la memoria, la verdad, la justicia, La rebelión pinguina, Estudiantes de secundaria chilenos Contra el sistema, Mayo Baiano, La rebelión de Buzu, Bahía Euclides da Cunha, Pierre Verger, vamos a Bahía mapuches, las Naciones Unidas Contra el Pueblo del Estado, Negro Comedia Buenos aires, afro-argentino de teatro. Tra i libri: Bolivia, poema rebelde, 22 de abril en las costas de Brasil, los indios en las celebraciones de los 500 años, La poesía contra el Imperio, Che, un poema de guerrillas, Poemas sin tierra, Jorge Amado en el ascensor y otros cuentos de Bahía. info:lamestizaaudiovisuales.blogspot.it

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