Persona, nel senso latino di maschera, è il titolo di un celebre film di Ingmar Bergman che mette a confronto due donne di diversa estrazione sociale: un’attrice affermata che si rifiuta di parlare ed un’infermiera che l’assiste. Malgrado l’antagonismo ed una rete complessa di reciproche pulsioni, le due donne finiscono con l’assomigliarsi in una sorta di fusionalità fotografica. «Persona» è anche il titolo scelto quest’anno dal Festival di Cinema e Donne di Firenze giunto alla sua 37° edizione, conclusasi due giorni fa. È un festival nato sull’onda del femminismo degli anni ’70, che perdura nel tempo sfidando l’antifemminismo e il cicaleccio massmediologico del disimpegno. Molte registe – e a volte delle spettatrici – avvertono il rischio della ghettizzazione e mal sopportano leggittimamente di essere inserite in una «gabbia» che, isolandole dal contesto generale del cinema, le marginalizza, ma bisogna dire che al tempo stesso le esalta. In una società che dice a grandi lettere di aver raggiunto la parità dei generi, purtroppo la realtà della condizione femminile è cambiata soltanto in certi ambiti, le istanze del femminismo sono state sepolte sotto la polvere degli anni e i cosiddetti ‘studi di genere’ occupano un posto nelle accademie ma, tra mille fraintendimenti, non incidono certo in modo decisivo sulla collettività, e, in campo cinematografico, sul gusto del pubblico. Tanto è vero che ad esempio il film Violenza invisibile di Silvia Lelli e Matilde Gagliardo, un’inchiesta sulla violenza psicologica, simbolica e morale subita dalle donne oggi in Italia, ha trovato degnamente posto solo nell’ambito del festival fiorentino. Ci saranno certo altre occasioni in cui questo accurato lavoro in équipe verrà mostrato, ma, sia per il suo carattere documentario che per le carenze tipicamente italiane non solo dei circuiti cinematografici ma anche della programmazione TV, sarà molto ma molto difficile che trovi una distribuzione. Eppure il problema è scottante, ed è attuale: è violenza che si esercita nell’ambito domestico e personale, ma nella logica perversa che ammette soltanto la notizia eclatante solo il femminicidio fa notizia. Ecco, il festival di Firenze è tuttora un riflettore acceso su ciò che le donne producono a livello internazionale senza divismi e montature pubblicitarie, tastando il polso a quella condizione femminile che rimane difficile e impervia malgrado l’evoluzione dei tempi, e che assume negli anni forme sempre diverse ed imprevedibili di oppressione e di discriminazione. Impressionante, ad esempio, il confronto tra due film tunisini: Militantes (2012) di Sonia Chamkhi e Le Challat de Tunis (2013) di Kaouther Ben Hania. Nel primo si assiste agli sviluppi della «rivoluzione dei gelsomini» in cui molte donne si prodigarono in una campagna capillare nelle case, nei mercati, per le strade, animate da un’incredibile energia per cambiare il governo e lo stato delle cose. Ed anche se in quell’occasione persero le elezioni, le hanno vinte recentemente, e molte di loro ricoprono oggi cariche importanti nel governo. Nel secondo film invece viene evocato Il Lametta, un censore islamico che ha imperversato nelle strade di Tunisi sulla sua motocicletta ferendo velocemente alle spalle le donne che a suo avviso davano «scandalo» con il loro abbigliamento disinvolto. Un criminale che ha sfregiato in questo modo almeno otto donne nell’arco degli anni e non è mai stato preso da una polizia compiacente. Due volti profondamente antitetici di un paese molto vitale del quale i due film mostrano la grande carica femminile e dall’altro lato la profonda misoginia.
Completamente diversa l’atmosfera evocata dai film italiani, a volte ripiegata sul passato, come nel film Ritals, domani me ne vado (2011) di Sophie e Anna Lisa Chiarello, due sorelle che raccontano la storia della famiglia, divisa tra i vantaggi dell’emigrazione e il desiderio di tornare in Puglia, da dove quattro fratelli contadini si erano spostati con le mogli per lavorare in Francia. Il dolore dell’emigrazione, che molti italiani hanno dimenticato, trapela dalle immagini e dai racconti rendendo viva e pungente una domanda di senso sottesa ad un film che va in profondità e non si limita alla semplice rievocazione. Anche Per tutta la vita (2014) di Susanna Nicchiarelli si interroga sul passato, sulle trasformazioni del matrimonio, dai discorsi di Fanfani negli anni della legge sul divorzio, alla vita da separati di una coppia che appare appena sposata nei vecchi filmini di famiglia e che oggi cerca di trovare un modo civile di intendere i rapporti senza parlare delle ragioni della separazione. Così, forse anche per i calibrati interventi di un aitante avvocato, il film resta un semplice documento che non suscita partecipazione. Lo stesso si dica per il film di Wilma Labate Qualcosa di noi (2014), cronaca di un seminario di scrittura in cui gli studenti si confrontano con Jana, una prostituta che racconta la sua vita professionale in cui grandeggiano il corpo e il danaro. Un personaggio corazzato nel suo ruolo, senza mai un cedimento, che parla anche di figli e di mariti senza dire nulla della sua vita affettiva, una persona completamente reificata il cui solo problema è quello del giudizio degli altri, senza rendersi conto che quel tanto temuto giudizio parte proprio da sé (e probabilmente dal padre carabiniere). Forse Jana può significativamente essere il simbolo dell’epoca in cui viviamo, di un’aridità senza remissione in cui il danaro sembra risolvere ogni problema. Il suo aspetto fisico evoca certi dipinti espressionisti di Grosz, ma allora sarebbe stata bene in un contesto simbolista e non si capisce proprio cosa possa dare ai ragazzi che l’hanno conosciuta. Molto particolare il film di Carla Vestroni che in modo del tutto «artigianale in Era di maggio (2015) riprende dalla sua finestra, sul tetto di fronte, una coppia di gabbiani per un intero anno, da un mese di maggio all’altro. Entrano in campo anche delle suore che su un altro terrazzo chiacchierano o fanno asciugare i capelli al sole. Nessuno di questi esseri vive nel contesto che gli è proprio, ma la vita continua e nascono dei piccoli gabbiani, mentre nel sonoro si alternano telefonate, dialoghi sospesi, citazioni poetiche e musicali – la vita che scorre. Su tutto, il teatro delle statue di S. Giovanni, il rumore del traffico, certi cieli soltanto romani. E’ decisamente un film sperimentale, molto originale in un momento in cui chi vuol far cinema finisce molto spesso col fare televisione.