«Filmmakers donne, ignorate un’altra volta». È il titolo dell’articolo in prima pagina della sezione cultura del «New York Times» di ieri. Lo spunto del pezzo di Brooks Barnes e Nicole Sperling arriva dalla polemica hollywoodiana del momento, scoppiata dopo l’annuncio delle nomination ai Golden Globes, martedì scorso, e quello delle nomination per i SAG Awards (il premio conferito dal sindacato degli attori), mercoledì. Entrambe le organizzazioni sono state criticate perché nelle loro short lists di candidati ai rispettivi premi non appaiono abbastanza donne, specialmente dietro alla macchina da presa, ma anche (tematicamente parlando) nelle trame e nel tessuto dei film.

Lungi dall’essere il risultato di una valutazione relativa a meriti del carattere artistico di un’opera, una performance o una regia, le nomination sono considerate «inaccettabili» perché non riflettono il nuovo corso dei tempi, dettato da #Me Too e dalla sua incarnazione più potente e pragmatica, nata all’interno delle agenzie, Time’s Up. Nel pezzo del «Times» la produttrice Elizabeth Cantillon ricorre addirittura alla Forza, per manifestare il suo disappunto: È L’impero colpisce ancora», dice identificando il risultato delle nomination con una risposta del potere maschile (nell’industria) nei confronti della «resistenza» delle donne. Film come The Irishman, Once Upon a Time in Hollywood, Uncut Gems o l’ultimo Clint Eastwood, Richard Jewell, sarebbero non il lavoro di alcuni tra i migliori talenti del cinema americano contemporaneo ma le prove inconfutabili di questa recrudescenza del «maschile».

PARTICOLARMENTE offensiva in questo contesto sarebbe stata l’esclusione dai potenziali palmares di Piccole donne di Greta Gerwig, un film perfetto «sulla carta» per la stagione degli awards, spondato dal potente produttore newyorkese Scott Rudin e con un cast che chiunque vorrebbe sul tappeto rosso – oltre alla stessa Gerwig, Saoirse Ronan, Laura Dern, Meryl Streep, Emma Watson, Timothee Chalame. Il che -renderebbe la scelta della Hollywood Foreign Press (che ha nominato solo Ronan, tra le attrici protagoniste) un atto di masochismo. Perché non accettare invece che il film di Gerwig (definito dal «Times» «una lettura sovversiva» del capolavoro di Alcott), che ha il look di una vetrina natalizia troppo piena, magari non è così emozionante, riuscito e soprattutto necessario; e che nonostante l’hype, Gerwig non ha mai dimostrato grandi doti registiche?

Grande disappunto tra gli opinionisti anche per Hustlers di Lorene Scafaria (un film politicamente curioso e formalmente brutto, che avrebbe beneficiato della regia di Katt Shea, autrice dei piccoli gioielli cormaniani Stripped to Kill) e The Farewell, la piccola commedia famigliare della regista di origine cinese Lulu Wang, che dopo il successo a Sundance, è diventato uno dei cavalli di battaglia della A24 per la stagione degli Oscar. La prova che questi film sarebbero all’altezza, anzi meglio, di quelli di Scorsese o Tarantino? L’articolo del «Times» tocca il fondo, citando gli algoritmi del sito Rotten Tomatoes. E mentre Harvey Weinstein sta concludendo un accordo da 25 milioni per chiudere ogni vertenza civile a suo carico (il processo criminale a febbraio), una nuova generazione di distributori (A24, Neon e la solita Netflix) ha fatto suo il manuale delle corse per gli Oscar all’ultimo sangue.

«› non ipotizzare lo zampino di questa o quella compagnia anche dietro alla polemica sull’esclusione delle donne. Che queste manovre trovino terreno così fertile, reattivo, nei media e nella cultura dominante è il riflesso minore (e ridicolo) dell’efficacia delle manipolazioni che si stanno conducendo su un palcoscenico molto più grande e pericoloso, a Washington.
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