«Con la Cina, l’Iran ha firmato un accordo che serve a dimostrare all’Occidente che non può più isolare la Repubblica islamica. Di fatto, però, le coordinate dell’intesa non sono chiare: nulla di concreto è stato predisposto, solo una serie di vaghe promesse tra Pechino e Teheran. Ed è probabile che il neoeletto presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi continui in questa direzione», osserva Dina Esfandiary, senior advisor per il Medio Oriente e il Nord Africa presso l’International Crisis Group.

L’ultraconservatore Ebrahim Raisi si insedierà alla presidenza della Repubblica islamica il prossimo 3 agosto. In campagna elettorale aveva dichiarato «di voler dare la priorità alle relazioni diplomatiche con i paesi geograficamente vicini all’Iran, che è in buoni rapporti con la Cina». E infatti lunedì scorso il presidente cinese Xi Jinping si è congratulato con Raisi, precisando che i due paesi sono «partner strategici». Il partenariato tra Teheran e Pechino è a 360 gradi: dal commercio alla sicurezza, inclusa la lotta al terrorismo, la cooperazione militare, il turismo e il sostegno delle reciproche prese di posizione nelle organizzazioni internazionali. In altri termini la Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dovrebbe esercitare il diritto di veto per bloccare ulteriori risoluzioni contro l’Iran. Quest’anno ricorrono i cinquant’anni di relazioni diplomatiche tra Cina e Iran.

Pechino è il principale partner commerciale di Teheran ed è stato uno dei maggiori acquirenti di petrolio iraniano prima del ripristino delle sanzioni unilaterali americane deciso da Donald Trump dopo l’uscita di Washington dall’accordo sul nucleare. Con la Cina l’Iran ha firmato un patto di cooperazione politica, strategica ed economica della durata di 25 anni. Siglata a Teheran lo scorso marzo, in presenza del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif e del suo omologo cinese Wang Yi, l’intesa era giunta dopo cinque anni di negoziati. Prevede investimenti cinesi per circa 400 miliardi di dollari nei settori dell’energia e delle infrastrutture iraniane mentre, da parte sua, Teheran garantisce a Pechino un approvvigionamento stabile di petrolio e gas a prezzi competitivi.

Quello tra Pechino e Teheran è però un rapporto asimmetrico, in cui il Leone persiano si inchina al Drago cinese soltanto perché non ha altre possibilità in questo contesto storico, segnato dall’effetto congiunto della pandemia di Covid-19 e del crollo del prezzo del petrolio, ma soprattutto nel solco creatosi con l’Unione Europea nel 2018, quando il presidente statunitense Trump si era ritirato unilateralmente dall’accordo nucleare. Spalle al muro, i vertici iraniani sono stati costretti a stringere accordi con la Cina. A breve Pechino potrebbe controllare buona parte delle risorse iraniane, nonché quella parte di costa che si affaccia sul Mare di Oman, strategica per il passaggio delle petroliere nel Golfo persico.

Il Drago cinese fa però paura agli iraniani: «Le dichiarazioni della leadership di Teheran e gli accordi miliardari non saranno sufficienti a restituire fiducia agli iraniani, che restano sospettosi nei confronti del gigante cinese e dei suoi prodotti, ritenuti di bassa qualità», continua Dina Esfandyari. Il problema maggiore è che «in questi ultimi anni gli iraniani hanno avuto prova di non poter fare affidamento sull’Occidente», tantomeno sull’Europa percepita in una posizione di sudditanza rispetto a Washington. Per questo motivo, «gli iraniani sanno di dover fare buon viso a cattivo gioco e quindi di doversi adattarsi a trattare con i cinesi».