Capita spesso che un componente di un gruppo musicale tenti la carriera da solista, pur continuando a suonare nella band di appartenenza. È successo a tanti gruppi, a partire da Beatles e Rolling Stones. Avviene la stessa cosa nei collettivi di scrittura, basti pensare al caso dei Wu Ming. Adesso è la volta di Tersite Rossi: Marco Niro, ovvero la metà di tale collettivo, esordisce pubblicando un proprio romanzo, ovvero Il predatore (Bottega Errante Edizioni, pp. 328, euro 19). La storia è ambientata a Cimalta, un piccolo paese di montagna dove un orso «che non sapeva di chiamarsi Thor», dopo che l’estate precedente aveva ferito un turista, viene accusato di aver compiuto una vera e propria strage. Non solo il plantigrado viene abbattuto, ma si scatena un feroce dibattito sulla necessità di azzerare l’intera popolazione di orsi della regione.

SI ARRIVANO A BRUCIARE in piazza, non i libri, ma gli orsetti di peluche «sotto gli occhi attoniti dei bambini e dei ragazzi che ne erano stati i proprietari». Il sindaco di Cimalta e ricco imprenditore, Matteo Adami, vince le elezioni a presidente della Regione, sfruttando anche l’odio verso questi animali, promettendo, appunto, la loro totale distruzione. Il piccolo paese di montagna assurge, nel romanzo, a specchio della società italiana attuale, piena di odio e di risentimento verso ogni diverso. Come emerge chiaramente nei pensieri del parroco, che ha perso la fede in Dio: «Don Ruggero aveva osservato il gregge di cui avrebbe dovuto essere il pastore lasciarsi afferrare dagli istinti più biechi, lasciarsi andare alle reazioni più barbare. Li aveva visti concentrare sugli orsi, con cieco assolutismo, tutto l’odio che covavano per i corpi estranei, i diversi, i mostri, sperando di poter fare a loro quello che non potevano fare agli immigrati, ai ladri di polli, ai contestatori della morale, ai non conformisti. Li aveva guardati sostenere con aggressività ferina l’uomo che prometteva vendetta, ed esultare con urla belluine al suo trionfo».

LA CRITICA alla società attuale è, come si vede, aspra e puntuale, alla maniera degli altri testi del collettivo Tersite Rossi. La differenza, forse, consiste nel restare ancorati alla realtà e alla contemporaneità, senza sconfinare in futuri apocalittici o presenti distopici. Del resto anche il tema trattato, il rapporto con gli orsi, è di stringente attualità. La scrittura è rapida e chiara con toni a volte surreali o fiabeschi, come nell’inizio della storia, subito dopo il prologo: «C’era una volta, e c’è ancora, un paese di nome Cimalta». Toni che però arricchiscono la narrazione, senza mai inficiarne il realismo. I caratteri dei personaggi, poi, sono delineati davvero in modo magistrale, facendone emergere i tratti psicologici più profondi, le loro motivazioni, i cambiamenti che attraversano. Alcuni di loro, per di più, con la miscela di disincanto e impegno, di cinismo e ingenuità che li caratterizza, sembrano rispondere appieno ai protagonisti del tipico noir. Così come a tale genere corrispondono le ultime riflessioni del prete senza Dio, dove si denuncia tutto il marcio della realtà attuale: «Doveva andare lontano. Lontano da quella terra infetta (…) Dove tutti erano, nei confronti del tessitore, debitori o ricattabili, o entrambe le cose. Ed erano felici di esserlo. Perché quei debiti e quei ricatti erano il prezzo che pagavano volentieri per poter continuare a coltivare la loro avidità e il loro egoismo, dietro la facciata del perbenismo». Sembra quasi di risentire quel «Jatevenne», pronunciato con amarezza da Eduardo De Filippo tanti anni fa. Eppure, solo poche pagine dopo, in quello che viene definito Post epilogo, sembra aprirsi un paradossale e fragile spiraglio di speranza, affidato alle nuove generazioni.