Il Settecento inglese fu il più europeo dei secoli, il più ricco e disponibile a scambi di idee, esperienze, imprese. Al tempo stesso fornì all’Europa la democrazia parlamentare già corredata dalle malattie della vecchiaia, l’intraprendenza commerciale già degenerata in colonialismo, la finanza e i suoi azzardi rovinosi, il credo libertario, ma anche la diffusione della cultura oltre la classe privilegiata dei pochi intellettuali. Fiorirono le prime grammatiche universali e le utilissime grammatiche prescrittive. Il cosmopolitismo e l’educazione delle donne richiedevano grande attenzione al bene comune della lingua, secondo la direzione già impostata dalla Royal Society nel secolo precedente: la lingua inglese doveva liberarsi dal concettismo e diventare limpida, razionale, urbana, nobilitata da innesti dal latino e dal greco. Doveva anche servire da barriera invisibile ma udibile tra le classi sociali.
Lo squire, il proprietario terriero che spartiva il tempo e il dialetto con i suoi fittavoli, non poteva essere confuso con il nobile latifondista che possedeva la ricca magione in campagna, dove non si recava quasi mai, e lo splendido palazzo di Londra, dove trascorreva il suo tempo tra affari politici e mondani, difendendosi a colpi di battute ben dirette dalla aggressività dei tanti possibili scalatori sociali: la futura borghesia. A teatro un lord irascibile minacciava di botte il calzolaio che pretendeva di parlare bene quanto lui; la petulante servetta Pamela scriveva lettere suadenti e seduttive, con grande scandalo di Lady Mary Wortley Montague.
Gli scrittori classici erano i maestri che insegnavano a parlare e a vivere in un mondo che si era messo prudentemente al riparo dall’irosa teocrazia biblica e dal patetico, invadente, credo cattolico romano. «Ogni ornamento superfluo è rigettato dalla fredda frugalità dei protestanti; ma la superstizione cattolica, che sempre è nemica della ragione, è spesso la madre del gusto» – scriveva Edward Gibbon a metà del secolo nelle sue Memorie della mia vita (Aragno editore, traduzione e cura di Giovanni Bonacina, pp. 345, euro 18,00). Finalmente ritroviamo la voce di quell’eccezionale uomo comune che fu autore della Storia del Declino e della Caduta dell’Impero romano, e ci chiediamo insieme a Lytton Strachey: «Perché il Settecento ci piace tanto?» Non solo per la divina eleganza, per la grazia che conferiva significato a quel che è frivolo e a quel che è vuoto. Ma – aggiunge – per la qualità che più ci fa infuriare, l’incredibile autosufficienza di quel mondo illuminato, equilibrato, amabile; un mondo irripetibile.
Perché ci piace tanto il timoroso Gibbon – ci chiediamo – che in vita non azzardò mai imprese sentimentali o finanziarie? Che nella vecchiaia trovò il bene più grande? «Libertà è il primo desiderio del nostro cuore, libertà è la prima benedizione della nostra natura; e a meno che non ci leghiamo noi stessi alla catena volontaria dell’interesse, o della passione, avanziamo nella libertà a misura che avanziamo negli anni.»
Nell’Introduzione alle sue Memorie aveva giustificato la passione per gli scritti autobiografici di autori che aveva amato: Plinio, Petrarca, Erasmo, Montaigne e altri, fino al nostro Goldoni, le cui Memorie «sono più autenticamente drammatiche che le sue commedie italiane.»
Alla narrazione semplice e sincera della propria vita si dedica a partire dai cinquantadue anni, una volta terminata la grande opera storica, accolta con immediato entusiasmo. Lo stile sarà semplice e familiare, promette, lo scopo il divertimento. È fiero della sua famiglia, ma la famiglia di Confucio è più illustre, apprezza le insegne del potere, ma ritiene che il Tom Jones di Fielding sopravviverà all’Escuriale e all’aquila asburgica. Quanto a sé preferirebbe discendere da Cicerone più che da Mario, da Chaucer più che da nobili antenati.
È un ritratto frontale quello che presenta al lettore, di antica onestà, alquanto diverso da come è stato raffigurato di tre quarti in un olio di Henry Walton (del 1773) e in un altro più raffinato di Reynolds (del 1779): paffuto, col doppio mento, ma elegante, composto, un intellettuale conservatore, appassionato di araldica, ma anche illuminista, scettico, che votò a favore dei coloni americani. Orfano di madre, unico sopravvissuto di sette fratelli, era stato iniziato alla lettura da una zia e con lei aveva spaziato dai classici alle Mille e una notte.
Il primo anno al Mary Magdalen di Oxford fu deludente. A distanza di quarant’anni stilò una severa condanna di Oxford e Cambridge, le due università che detenevano il monopolio dell’istruzione pubblica, «…lo spirito dei monopolisti è angusto, pigro e oppressivo, il loro lavoro è più costoso e meno produttivo rispetto a quello degli artigiani indipendenti; e i nuovi perfezionamenti, così avidamente afferrati dalla libera competizione, sono ammessi solo con lenta e astiosa riluttanza in queste corporazioni orgogliose, poste al di sopra della paura di un rivale, e al di sotto della capacità di confessare un errore. A stento si può sperare che qualsiasi loro riforma sarà un atto volontario».
Durante la prima vacanza del 1752, a sedici anni, s’impelagò in una serie di letture teologiche che lo avvicinarono al grande Boussuet, il brillante difensore della dottrina cattolica, e si convertì al cattolicesimo, accettando anche «il mistero tremendo» della Transustanziazione. Fu uno scandalo: la riconciliazione alla chiesa di Roma era un reato di alto tradimento – secondo l’autorevole giurista William Blackstone. Venne espulso da Oxford. E fu la sua fortuna, perché da qui ebbe inizio l’educazione europea di quel vorace lettore, che spedito a Losanna da un padre furioso, tra protestanti di cultura francese, si convertì di nuovo questa volta a una voltairiana, disinvolta, fede nella ragione.
A Losanna rimase cinque anni e vi incontrò l’amico di una vita, il signor Deyverdun. Si scoperse felicemente sedentario, immerso nella lettura di tutti i classici nelle migliori edizioni allora disponibili. Né dimenticò Locke, Montesquieu, Bayle, Pascal, Montaigne… Incontrò Voltaire nelle sue funzioni di drammaturgo e regista nel piccolo teatro di Monrepos.
Evitò di sposare Mademoiselle Curchod, che fortunatamente divenne moglie del famoso Necker. Durante una breve esperienza militare, sempre con Orazio in tasca, commise «alcuni atti di intemperanza». A Parigi studiò la topografia di Roma antica, la geografia dell’Italia e la scienza delle medaglie. Era pronto per il grande viaggio italiano (dall’aprile del 1764 al maggio dell’anno successivo). Scalò il Moncenisio, portato a spalla su una sedia di vimini, e visitò le principali città italiane fino a Napoli. A Roma, il 15 ottobre 1764, fu folgorato dal desiderio di scrivere la tragica storia della decadenza e caduta della grande città. Era sul finir della sera e stava ascoltando i frati «mentre cantavano i vespri nel tempio di Giove sopra le rovine del Campidoglio», esattamente dove sorgono i musei capitolini che attualmente ospitano la mostra L’età dell’angoscia. Da Commodo a Diocleziano, ossia l’età degli Antonini a cui dedica i primi capitoli.
Lavorò per più di vent’anni alla sua Storia, terminata nel 1788, nella bella casa di Losanna, affacciata sul lago, tra i suoi settemila volumi, «il mio serraglio», raffinando lo stile «elegante, singolarmente uguale, affabile, sommesso…», ma che imprevedibilmente culminava nella «rattenuta, mortificata tragicità dell’ironia», ha scritto Manganelli. L’erudita, necessaria, postfazione di Bonacina non ci fa dimenticare la gustosa silhouette del famoso storico, tracciata dalla penna impenitente di un suo contemporaneo, Horace Walpole: «Mr. Gibbon, mi dispiace che proprio voi vi siate impelagato in un argomento così indigesto come la storia di Costantinopoli. Ci sono tanti di quegli Ariani e Eunomiani e semi-Pelagiani; e c’è un contrasto così assurdo tra gli usi dei Romani e dei Goti … che sebbene abbiate scritto la storia come meglio non si poteva, ho paura che non avrò la pazienza di leggerla.’ Lui arrossì. E i suoi lineamenti tondi si assottigliarono formando angoli acuti. Contrasse la boccuccia, tambureggiò sulla tabacchiera, e disse ‘Non ero mai stato riassunto così – così bene voleva dire – ma se l’era inghiottito … Be’, da allora non l’ho più rivisto, né mi ha mandato il terzo volume come promesso’».