«Il frugare in una scatola di legno piallato e sudicio, a scomparti, che contenesse viti e madreviti usate, bulloni unti, lamette di rasoio, candele scompagnate, chiodi di scarpe da montagna frusti mescolati con matassine di trecciuola di rame (…) il frugare pazientemente in questo repertorio gli dava ore fuggevoli, liete di quella serenità e di quel medesimo oblìo, come al giovinetto poeta quando scartabella e fruga fra i vecchi poeti le loro giovani, gemmanti parole, vivida e fresca rugiada che la notte loro depone davanti la sua alba meravigliosa». Anni fa Gian Carlo Roscioni intuì che in questo elenco della Meccanica, spropositato, potenzialmente infinito (che ho dovuto scorciare), perfetto esempio di barocca enumeración caótica, Carlo Emilio Gadda aveva nascosto una metafora del testo parlante e visibile.
L’affetto-lista diviene ancor più efficace e risibile quando riemerge alla memoria la «fonte» sicura del brano, ossia il capitolo XXX dei Promessi Sposi, con il rientro a casa, dopo la peste, di don Abbondio e della Perpetua: «Non c’era nulla di intero; ma avanzi e frammenti di quel che c’era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de’ calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo».
Anche per Gadda (anzi, a maggior ragione per lui, che colse la «baroccaggine» del mondo e seppe rappresentarla) il caos delle «idee sottintese» fa cenno alla mise en abyme del testo, gremito coacervo di memoria e di allusioni, geologico sistema di faglie e di dislivelli che la scrittura deve riprodurre nello sforzo in primo luogo etico di «organare il groviglio conoscitivo», come scrive tra le pagine della Meditazione milanese. Nella sua «confessione circa i problemi di officina» che «si ingrana in una gnoseologia e in un’etica, oltre che in una esigua e frammentaria poetica» – così in Come lavoro – su questo orizzonte Gadda stesso rilevava l’impotenza di un mero repertorio di «fonti», sia linguistiche o letterarie, sia iconografiche: «La parola convocata sotto penna non è vergine mai, anche se in una ipostasi titillatoria e narcissica. (…) Le frasi nostre, le nostre parole, sono dei momenti-pause (dei pianerottoli di sosta) d’una fluenza (o d’una ascensione) conoscitiva-espressiva. Durano quel che durano. (…) Non sono, non riesco ad essere, un lavoratore normale, uno scrittore “equilibrato”: e tanto meno uno scrittore su misura».
Queste riflessioni autoriali tornano alla mente, con qualche amarezza, quando si legge, con la cura e l’attenzione dovute a un’impresa che si presenta ciclopica, scolpita aere perennius, e che sicuramente offre ricchi apporti all’analisi puntuale, il monumentale Commento al Pasticciaccio (con testo elettronico anche su Cd) dato alla luce da Maria Antonietta Terzoli e collaboratori, dopo lunghissima gestazione, presso il benemerito editore Carocci, che ha già offerto contributi importanti alla critica gaddiana.
Mi immergo e nuoto per ore, anche godendo la vastità dell’orizzonte, in un romanzo che ho letto molte volte, ma che a poco a poco fatico a riconoscere nella sua dinamica, nella tensione ironica e spesso parodica, nel suo ritmo di dolore e di risata, di memoria e di riscrittura (anche perché il testo-base garzantiano di Giorgio Pinotti non è riprodotto, e occorre compiere una macchinosa operazione di collazione, riga per riga). Incontro arcipelaghi lussureggianti di erudizione, mi godo la miriade di isolotti che fanno galleggiare con intelligenza gli spessori e i dislivelli culturali della scrittura: per esempio i richiami segreti alle voci dell’Enciclopedia Treccani o alle guide del Touring Club, ma anche la glossa continua dell’intertestualità con altre opere di Gadda, davvero preziosa per restituire la trama del pensiero poetante, e l’identificazione acuta di molte fra le immagini che l’ékphrasis gaddiana evoca e occulta.
Stupenda fra tutte quella che, nella pagina conclusiva, riconduce al Dostoevskij dei Fratelli Karamazov e alla Giuditta di Caravaggio e di Artemisia Gentileschi le ultime righe del romanzo: «Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi». Assunta è la Giuditta che forse ha tagliato la gola a Liliana: forse, perché «quasi», «avverbio di incompletezza e approssimazione carico di ambiguità», impone di sospendere il giudizio (e la trama). Altre volte, invece, affondo fra maree di dati inutili o non pertinenti. Ad esempio le frequenti allusioni all’«illustre ascendenza dantesca» dell’«ambientazione del romanzo nell’equinozio di primavera» (su cui ho molti dubbi, mancando prova più certa). O quelle ancora più numerose e insistite alla «fragile e inadempiuta figura mariana» che si staglierebbe dietro la «povera signora» Liliana. E il riferimento alla Rosa mistica delle litanie per la Madonna per spiegare la frase: «Gli anni! Come una rosa che sfiorì: i petali, uno dopo l’altro… nel nulla», e le «implicazioni anche procreative legate alla parola “visceri”» che si legherebbero alle «preghiere mariane come Ave Maria e Salve Regina», e addirittura alla «dissacrante parodia dell’ingravidatio per aurem, cioè attraverso l’orecchio, menzionata nell’apocrifo Vangelo armeno» (tutto ciò mi lascia basito).
Sarà davvero onesto commento sostenere che l’espressione «maschi di poca cena» «introduce un rinvio parodico all’espressione evangelica (e ormai proverbiale) “uomini di poca fede” di Mt. 14, 31»? E dedicare quasi una pagina alla voce Animismo della Treccani per commentare il termine «pandemonismo»? Oppure sostenere che il «nome ossolano e carabinieresco» del Pestalozzi nasconde «un implicito omaggio all’amico Gianfranco Contini, originario della Val d’Ossola»? O ancora, per interpretare «Ma precipitavano gli anni, l’uno dopo l’altro, dalla loro buia stalla, nel nulla», è accettabile il richiamo «alla grotta-stalla della natività di Gesù», e il codicillo che «Liliana è buia perché non illuminata da un figlio»?
Sono di sicuro opportuni, per palpare il lessico gaddiano, il richiamo alla discendenza dannunziana e montaliana di «fumea»; o il possibile prestito da Roberto Longhi del tecnicismo musicale «cavata», svolto in direzione figurativa; o l’elenco dei luoghi pascoliani che stanno probabilmente a monte degli «zirli di merli, o merule, dopo ogni frullo, da un ramo all’altro della primavera»: ma perché mai perdere del tutto, senza neppure un cenno, la potenza dello straordinario volo metaforico e metonimico che s’invola fulmineo? Gli esempi di questa parcellizzazione erudita che troppo spesso impedisce di seguire il flusso dell’energia inventiva gaddiana sono legione.
Mi domando: un commento come questo aiuterà davvero il lettore comune a navigare con la sua piccioletta barca su rotte sicure nell’oceano-Gadda? Ossia: i Classici vanno proprio annegati nel mare magnum della glossa basata sulla memoria informatica? In un libro ironico e erudito sull’invenzione delle «note in calce», The Footnote: A Curious History (1997, traduzione Sylvestre Bonnard, 2000) Anthony Grafton ha dimostrato come nella sovrabbondanza delle citazioni i silenzi sono spesso «pugnalate alla schiena di colleghi malvisti», e come «l’accesso della nota allo statuto intellettuale di indispensabile strumento scientifico è andato via via accompagnandosi, ahimé, al suo declino stilistico».
Riapro il meraviglioso, davvero magistrale commento di Emilio Manzotti alla Cognizione del dolore (Einaudi, 1987): così si dialoga con i Classici, con sobrietà ermeneutica e dottrina profonda ma misurata sui documenti, con rispetto e buon senso, permettendo al lettore di cogliere l’essenziale, ovvero il senso «della concentrazione semantica e della polivalenza della singola parola, del suo caricarsi di tutta una storia e di tutta una esperienza individuale».