Che la gastronomia sia un linguaggio con il quale persone e comunità riflettono le proprie organizzazioni e le classificazioni dei viventi, le demarcazioni fra ciò che per ragioni «affettive» è mangiabile o immangiabile, le ideologie sulla culturalità e la naturalità di ingredienti e i modi di comportarsi negli scambi comunicativi, lo sappiamo da pubblicazioni che negli ultimi decenni hanno rivalutato l’atto del cucinare, scoprendovi il segno distintivo della specie umana. Gustoso e saporito. Introduzione al discorso gastronomico (Bompiani, pp. 376, euro 25), illustrato con foto a colori di piatti tradizionali e di celebri chef, va oltre. Attira lo sguardo verso la gastronomia come processo, performance che nella preparazione, realizzazione e consumo del pasto accoppia «cucinante» e «mangiatario».

LA DEGUSTAZIONE, al centro del libro, è prima di tutto un «discorso amoroso» con chi, amalgamando ingredienti procura piacere («questo piatto mi ha conquistato»). Con un taglio originale che solo un intenditore può permettersi, Gianfranco Marrone assume il punto di vista del commensale e indaga l’esperienza del corpo nel degustare pietanze, accogliendo sfide, promesse, segreti, inganni, sorprese. Qui il cibo diventa espressione di ogni tipo di senso come trasformazione non chimica – mero carburante che nutre provocando reazioni fisiche – ma alchemica, di costruzione di valenze individuali e sociali: da un lato, attraverso l’alterazione di materie per renderle buone, dall’altro con i processi di ingestione, digestione ed espulsione che sono allegorici delle attività incessanti di interiorizzazione psichica del mondo (invisibile) e di esteriorizzazione (evidente) con cui formiamo le nostre identità, in divenire.
Lo dimostra, fra le analisi del libro, quella sui 45 secondi del film Ratatouille in cui Ego, il critico gastronomico, ingoia un boccone del piatto di Rémy, il topo chef, e fra mugolii di felicità ha una catarsi che gli fa cambiare modo di pensare e di agire. Perché questa conoscenza sensibile si avveri occorre andare al di là di come le cose appaiono al primo assaggio. Skinner, fermo a una percezione superficiale della ratatouille del rivale Rémy, vi vede solo una fisionomia popolare incompatibile con un ristorante stellato.

DUE TIPI DI ESPERIENZA gastronomica sono allora in gioco secondo Marrone: il gustoso, che porta al riconoscimento cognitivo e culturalizzato di ingredienti e portate, e il saporito, che scaturisce invece dagli aspetti sensibili delle sostanze scelte – qualità di base (dolce, amaro, acido, salato), consistenze, colori, temperature… Nel saporito, a cui è estraneo il peccato di gola, le sostanze prendono il sopravvento sul soggetto umano e lo scuotono in profondità.

LO CHOC del Pranzo di Babette, per esempio, è tale da sciogliere le lingue. Con i due livelli del gustoso e del saporito, l’autore da un lato riprende Greimas nell’estendere il progetto di ricerca della semiotica delle arti verso la percezione nel suo insieme. Gustoso e saporito ricalcano, infatti, i due diversi modi con cui le immagini significano: il figurativo, che riguarda la capacità di riconoscere in un quadro, in una foto, in un’installazione figure già note, e il plastico, dove i contrasti fra le qualità sensibili schivano la cognizione ed entrano in congiunzione intima con il soggetto.
Dall’altro lato, e in continuità con questo progetto, Marrone rivendica nell’estetica, cioè propriamente nel «giudizio di gusto», il ruolo della cucina e della degustazione rispetto al campo delle arti e al canale della vista. Lo fa però, intelligentemente, non sminuendo le arti visive e la loro contemplazione esaltando le qualità culinarie e la pratica del mangiare, ma evidenziando dentro foto di quadri, pubblicità e piatti di Gualtiero Marchesi, Michel Bras, Massimo Bottura, Niko Romito, Pino Cuttaia, sinestesie che chiama «gastrovisive».

DISPOSITIVI che in una sola dimensione o fra il primo piano e lo sfondo tengono traccia di tempi, modi e gestualità delle prassi di produzione, restituiscono la tenuta delle materie, friabili o compatte, ruvide, lisce, schiumose, morbide, croccanti…, sollecitano il corpo a corpo con l’osservatore-degustatore empirico, mediato o no da vari tipi di posate, per il montaggio e lo smontaggio del pasto.
Emergono strumenti e concetti utili a leggere non solo la pietanza servita, ma la prospettiva del degustatore che essa prevede: dall’«effetto cornice» alla «combinazione ripetitiva» alla «distribuzione in profondità» alla differenza tra cucina analitica e cucina sintetica, spiegata con l’opposizione di Wölfflin fra estetica classica, fondata sulla separazione degli elementi nello spazio, ed estetica barocca, tendente a fare massa e alla coalescenza di sensazioni. E se nelle analisi di tutte queste arti i parallelismi tra pittura e cucina abbondano, l’attenzione per i modi di farle e degustarle permette un ritorno sulla pittura, medium non dell’occhio ma dell’aptico che si assapora da vicino. Racconta, dalla sua pelle agli strati interni, nelle lotte tra forma e informe, la magia di una trasformazione delle materie che resta viva.