L’agricoltura intensiva distrugge la biodiversità e impoverisce i suoli. La grande sfida che abbiamo davanti è lavorare per superare l’enorme bugia che dice che un atteggiamento virtuoso non garantisce l’alimentazione per tutti» sostiene Carlo Petrini. «È stata data per scontata questa narrazione: voi siete delle élite, vi piace mangiar bene, il cibo biologico, ma con il cibo biologico non si può alimentare tutti. Questa è una bugia enorme, enorme».

Le parole del fondatore di Slow Food e ideatore di Terra Madre, ieri pomeriggio hanno aperto «Il Grande Trasloco», un progetto narrativo inedito – promosso da Fa’ la cosa giusta! e Terre di mezzo Editore – che nasce per esplorare gli ambiti della nostra vita che oggi abbiamo l’occasione di ripensare e farli diventare i capitoli di un romanzo-evento online che disegnerà da qui all’autunno il futuro che vogliamo (vedi box). L’appuntamento di apertura del capitolo Nutrire, con Carlin Petrini, di cui riportiamo uno stralcio, è stato anticipato da un prologo, in onda mercoledì 3 marzo, in compagnia di Michele Serra, per riflettere sul «potere delle parole».
Come immagina oggi il mondo in cui le piacerebbe vivere? Che cosa dobbiamo portare con noi, come comunità di viventi, e che cosa dobbiamo abbandonare per realizzarlo? Glielo chiedo anche a partire dalla riflessioni sull’ecologia integrale scaturite dall’incontro con Papa Francesco e confluite nel libro Terrafutura (Slow Food Editore, 2020).

Oggi si parla di sostenibilità forse in maniera esagerata, non vorrei che questo ne sminuisse il significato. La scommessa che abbiamo davanti è proprio quella di favorire questo passaggio, questa transizione in maniera chiara, impostando il nostro operare su nuovi paradigmi che devono senza dubbio essere rispettosi della situazione ambientale e rispettosi anche nei confronti di una condizione di disuguaglianza che sta generando molta sofferenza e che è inaccettabile. Questa pandemia ha ulteriormente aggravato la diseguaglianza tra la gente povera e gli accaparratori di ricchezza, quindi iniziare un processo di transizione senza mettere le mani sulle cause di questa iniquità è sbagliato.

Uno dei temi del «Grande Trasloco» è la diseguaglianza nell’accesso al cibo. Come fare per coniugare l’idea di cibo «buono, pulito e giusto» per tutti? Come sposare una sovranità alimentare di qualità con la lotta alla povertà alimentare?

Dal punto di vista del metodo, penso che occorra riflettere su un approccio nuovo. Avete impostato questa ricerca su tematiche precise – nutrire, abitare, viaggiare, curare, lavorare – e penso che metodologicamente nel raccontare queste tematiche si debba sapere che sono tutte connesse tra di loro. La connessione tra la nutrizione e cura, ad esempio, è strettissima. La cura è l’elemento determinante per l’alimentazione del futuro. Se non c’è la cura, non esiste nutrizione sostenibile perché cura vuol dire difesa della biodiversità, attenzione per le produzioni marginali, significa capire che cosa bisogna coltivare in ogni territorio, la netta connessione delle forme di agricoltura e allevamento da un territorio all’altro. Per affrontare il problema del cibo, credo sia necessario rafforzare la produzione locale in ogni angolo del Pianeta: questo è l’obiettivo primario dell’umanità. Ogni territorio deve garantirsi una componente significativa della propria sovranità alimentare, facendo in modo che la produzione non abbia effettivi negativi sull’ambiente. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che tutto il sistema alimentare, fatto di produzione, logistica, trasporto e trasformazione, incide per il 24% sulla produzione globale di gas climalteranti.

Il suo lavoro con Slow Food è partito dalla Langa di Nuto Revelli, quel mondo dei vinti di fine anni ’70, la fine di una civiltà contadina che aveva però disegnato i paesaggi agrari del Paese e non solo. Oggi come si ridisegnano le geografie alimentari?

L’intuizione di Nuto Revelli non va intesa come un lavoro di tipo antropologico, la società contadina che si trasformava in società industriale e perdeva tutta una serie di valori e di realtà. La sua analisi era politica, e riguarda la superficialità di abbandonare determinati valori e paradigmi, cosa che è avvenuta, e che era già stata denunciata da un altro grande intellettuale che era Pier Paolo Pasolini, quando denunciò il genocidio culturale della società contadina. Io, però, non sono convinto che tutto questo sia perso. Dobbiamo partire da un dato di fatto: il 75% dell’umanità si nutre grazie al lavoro di oltre mezzo milione di realtà agricole di piccola scala. Stiamo parlando di 500 milioni di aziende a conduzione familiare. Un universo che non ha riconoscimento politico. È opportuno ricostruire questo legame, dare questa dignità, rivedere non solo la geografia della presenza di questa realtà ma come queste realtà continuano tuttora a plasmare i territori.

Chi è il contadino del futuro, e che ruolo potrà avere nel «Grande Trasloco»?

Il contadino del futuro è un giovane che capisce l’importanza di costruire un’alleanza fra il suo lavoro e i cittadini che rispettano il suo lavoro, riconoscendo un giusto prezzo per i prodotti agricoli, ma esigendo un’attenzione alla qualità e all’ambiente. È questa la strada maestra da proseguire: implementare dialogo, connessione, interazione tra contadino e cittadino, perché nasca un modello che ho definito di co-produzione. Un cittadino cosciente diventa co-produttore e capisce il perché è importante questo tipo di agricoltura. Può farlo partendo da casa propria: ci riapproprieremo della nostra capacità di favorire un’alimentazione sana per la nostra salute e per la collettività solo ed esclusivamente se rafforzeremo le economie locali della produzione alimentare. Questo «passo» può essere favorito anche dai nuovi ristoratori, quelli che hanno capito che per mantenere la memoria di una cucina distintiva di territorio è necessario trasformare materie prime locali di qualità. Sono già tanti.