È passato un mese dalla morte di Giancarlo Aresta.

Siamo stati amici da quando lui aveva 23 anni ed era il leader del movimento studentesco a Bari ed io, di due anni più grande, ero già laureato e mi avviavo a un percorso di studi universitari.

Da allora i nostri percorsi intellettuali e politici non si sono più separati, e hanno trovato un intreccio sempre più stretto nel Pci, fino alla lotta politica contro la svolta della Bolognina.

Non voglio ora ripercorrere la vicenda di questo legame personale, né evocare il contesto di quegli anni.

Gli sono stato particolarmente vicino in tutto questo ultimo anno in cui, col coraggio e la forza che tutti gli conoscono, ha affrontato il cancro. Eppure non ero preparato a sentirmi dire, quella notte, che era morto.

Impietrito dal dolore, non ho potuto trovare la forza di scriverne il ricordo, come pure mi era richiesto. Altri sono riusciti a farlo, dando così un conforto a tutti quelli che lo hanno conosciuto e gli hanno voluto bene.

Le donne soprattutto hanno trovato parole capaci di restituirci qualcosa di profondo della sua persona. Ma soprattutto sono rimasto ammirato e confuso dalla forza di Alba, che ha saputo scrivere di lui, di loro, nel momento di un così grande dolore. Lì ho sentito tutta la mia debolezza di uomo.

Perché Giancarlo era anche questo: forza, in rapporto indissolubile con Alba, e con Francesca e Marinella.

In ogni momento e in ogni ricordo della mia vita loro compaiono insieme, e non possono essere pensati se non come unità. Mi era e mi è impossibile pensarli per separazione, anche se ciascuno di loro ha forte personalità individuale.

E di questo vorrei ora parlare, della forza di coesione che loro hanno manifestato e esercitato attorno a sé. Nasce questo da straordinarie cariche di affettività e empatia umana. Un tratto che si è riflesso nella partecipazione loro al lavoro o alla vita pubblica. Rendendoli esemplari, persone su cui contare e esempi a cui riferirsi.

La solidarietà umana più larga, come anche la passione politica diventano qualcosa di fortemente creativo e urgente in persone così. Relazioni, affetti, lotte politiche sono spazi di creazione continua di “un mondo nuovo”. Penso ora ogni giorno alla lotta di Francesca, medico al Niguarda di Milano.

Si capiva immediatamente che Giancarlo era posto su questo crinale: ma se misurava se stesso sulla coerenza con i valori e le idee che sospingono al cambiamento, non così era per il suo rapporto con gli altri.

Qui dominavano gli affetti, e lo sforzo di comprendere le ragioni altrui. C’era in lui infatti una sorprendente tenerezza verso gli amici.

Franco Cassano una volta ha scritto che nel ’68 una generazione si ammalò di politica, senza più riuscire a uscirne. Certo, catastrofica e distruttiva fu la fine politica di quel che appariva “il vento della Storia”. Le sinistre non ritrovarono più un senso, un modo di esserci. Eppure alcuni, Giancarlo più di qualunque altro che io conosca, non cessarono mai di costruire relazioni sotto il segno della ricerca, dall’impegno ad agire, di un codice etico di assoluta sincerità e allo stesso tempo solidarietà umana.

Lui è morto quando stavamo appena cominciando a capire cosa fosse il coronavirus. Non lo ha ucciso quel virus, ma è sicuro che la sua assenza in questo passaggio ci toglie un compagno e un lottatore decisivo, quando più servono competenza, tenacia e capacità di costruzione di futuro.