A don Gallo non sarebbe dispiaciuto rimanere da vivo, quasi quarantacinque anni fa, nella parrocchia dello storico quartiere del Carmine. Invece fu mandato via dal cardinale Giuseppe Siri, e il racconto del suo allontanamento è già leggenda: «Conosco il martirologio, le litanie dei santi, ma non ho mai sentito quel santo che continui a invocare con i tuoi parrocchiani, Ho Chi Minh», gli avrebbe detto l’arcivescovo con tutta l’ironia di cui era capace.

Oggi «il Don», o «il Gallo», com’era affettuosamente chiamato da tutti, tornerà al Carmine per i suoi funerali. Una bella rivincita, sia pure postuma, per un prete che per tutta la vita ha percorso le vie del Vangelo «in direzione ostinata e contraria», per usare una sua definizione. A maggior ragione perché a ricordarlo sarà il cardinale Angelo Bagnasco, genovese come lui e uomo dell’establishment vaticano.

«Loro l’hanno buttato fuori, noi ce lo riportiamo», dice «la Lilli», storica segretaria della Comunità di San Benedetto al Porto, abbozzando un sorriso di soddisfazione tra tanto dispiacere. A Don Gallo, sostiene, avrebbe fatto piacere l’omaggio di Bagnasco, con il quale una settimana fa aveva anche preso un caffè. «Il Don» avrebbe voluto anche che l’orazione funebre fosse affidata al suo più grande amico: Moni Ovadia, con il quale trascorreva notti intere a discutere di ebraismo e cattolicesimo. Ci sarà anche quest’ultima, insieme al ricordo del sindaco Marco Doria, però sul sagrato della chiesa, perché la Curia non li ha voluti in chiesa. Ci sarà così un supplemento laico all’esterno, al termine della cerimonia. Quello che pare spaventare di più la Curia è il «popolo di don Gallo»: non solo l’«ebreo» Ovadia e il «comunista» Doria, ma quelle migliaia di persone che – si teme – potrebbero intonare un Bella ciao collettivo persino in chiesa.

Don Gallo era consapevole della sua malattia. Aveva deciso di non curarsi, ma allo stesso tempo non si risparmiava. Per dimostrarlo, «la Lilli» tira fuori l’agenda degli appuntamenti: oggi un battesimo, domani una manifestazione, prenotazioni fino al 25 aprile 2014 nonostante la decisione di non accettare inviti «oltre i 300 chilometri», per consentirgli di tornare a casa in giornata.

Don Gallo non sarà stato benvoluto dalle gerarchie ecclesiastiche, ma era indiscutibilmente amato dalla «base». «Negli ultimi tempi era affaticato, però appena si trovava di fronte al pubblico si trasformava», racconta «la Lilli». Aveva fatto così fino a tre settimane fa, quando era intervenuto a una manifestazione in difesa di un teatro genovese minacciato dai tagli.

La piccola sede della comunità – la chiesetta, il gabbiotto che fa da segreteria, l’ufficio di don Gallo con il terrazzino, le camere da letto e la sala mensa al piano di sopra – è un continuo via vai di persone che non si limitano a sostare davanti al feretro ma vogliono salutare «la Lilli» e gli altri volontari, commentare e scambiare due chiacchiere. Per due giorni il «popolo di don Gallo» è venuto a rendere omaggio al suo fondatore: passano i rappresentanti della comunità ghanese e le princese del ghetto che aveva difeso dallo sfratto, politici e ragazzi dal look inconfondibilmente altermondialista, e tanta gente comune. Qualcuno ha lasciato un sigaro – don Gallo non si separava mai dai suoi «toscani» – qualcun altro una maglietta del Genoa – la squadra di cui era tifosissimo – con su scritto «ciao Don». E poi ancora ritagli di giornale, una Bibbia e la Costituzione aperte, una bandiera della pace. In sottofondo, la musica di Fabrizio de Andrè.

Oggi il feretro, prima di entrare nella chiesa del Carmine, passerà inevitabilmente davanti a quel murale che mostra una scena della «manifestazione popolare spontanea» contro il suo allontanamento, nel luglio 1970. È accompagnato da una scritta: «Un bambino piangeva sugli scalini della chiesa, un vigile gli chiese perché e lui rispose: ‘mi hanno rubato il prete’». «Quel bambino ero io», mi dice un uomo con un paio di baffi d’altri tempi. Lo afferma con sicurezza, non ho il tempo di verificare ma non è che importi molto. Indossa un borsalino uguale a quello del «Don»: «Me lo aveva regalato lui». Si chiama Enzo Motta, ha origini catanesi e si dispera per la sua morte perché, sostiene, «eravamo grandi amici»: «Sono stato trent’anni in carcere, veniva sempre a trovarmi. Mi diceva: ‘Enzo, fatti la galera e stai zitto’». In carcere si era innamorato di Mary, un transessuale eroinomane morto un anno e mezzo fa, e la sua storia è raccontata in un film, La bocca del lupo, che ha vinto pure il Torino film festival. Era anche questo il «popolo di don Gallo», quella variegata e spesso dolente umanità dei carrugi genovesi a cui il «prete da marciapiede» – come amava definirsi – apriva le porte della sua comunità, a qualsiasi ora del giorno o della notte.