E’ morto Claudio Rocchi. Aveva 62 anni. Nei giorni scorsi in un post straziante su Facebook aveva annunciato la sua “settima vita”. “Studente, aspirante rock star, aspirante santo indù, aspirante normale professionista, musicista ritrovato”. Le prime cinque. E la sesta: malato terminale per via di una grave malattia degenerativa alle ossa. Paralizzato in un letto, infine. “Ma cazzo non era sufficiente così? Pure paraplegico ora”, scriveva sorretto dalla forza che negli anni gli aveva dato la frequentazione della spiritualità orientale. “Sappiate che il buonumore tiene – annunciava ancora – la Coscienza pure e il libro è iniziato stamane”. Era neppure un mese fa. Ieri sera, la notizia della scomparsa.

Di Claudio Rocchi i ragazzini e le ragazzine degli anni ’70 difficilmente avevano potuto dimenticare quel piccolo film truffautiano in forma di ballata psichedelica che era “La tua prima luna”: storia di una fuga di casa “mangiando una mela/ comprata passando dal centro/ dove i tuoi amici parlavano ancora di donne e di moto” , che finiva col protagonista addormentato su un prato e il passaggio di “una macchina verde della polizia”. In quel colore verde (lo stesso di certi poliziotteschi d’epoca, delle immagini d’archivio con gli scontri di piazza di quegli anni), restava tutta la tenerezza e la rabbia di un’altra epoca, inevitabilmente.

E poi gli accordi erano semplici, la spazialità dilatata come nei dischi californiani – tra David Crosby e Tim Buckley. O come in certi pastiche etnici della Incredible String Band che Rocchi stesso amava e trasmetteva in quegli anni alla radio a Per voi giovani, con uno stile confidenziale, naif, da viaggiatore anni ‘70, dandoti del tu come faceva nella sua canzone più famosa. “Musica totale”, antirock, umana, neoprimitiva, neoetnica che rompeva con il ritmo industriale del rock’n’roll per buttarsi all’esplorazione di una specie di mondo nuovo. E si faceva sul serio: dal “viaggio” (per caricaturale che fosse) si poteva anche non tornare indietro.

Claudio Rocchi è stato comunque uno dei più conosciuti interpreti italiani della prima nostra “musica alternativa” (per certi versi mai più eguagliata per ricchezza e capacità di sperimentazione). Con gli Aktuala, con il jazz-rock degli Area, con Battiato e tanti altri. Tutti protagonisti dei festival di Re Nudo prima del disastro di Parco Lambro, in certi boschi prealpini dove si arrivava in autostop, si suonava praticamente senza elettricità e gli abitanti del luogo ti accoglievano come i nazisti dell’Illinois. Perché alternativa nella cultura era anche l’organizzazione, o non era.

Milanese come la maggior parte dei protagonisti della stagione psichedelica, legato fin dall’inizio all’esperienza di Re Nudo – straordinaria provocazione contro l’irrigidirsi neozdanoviano dell’estrema sinistra del tempo – figlio di un costruttore edile, smarrita e nuova generazione rispetto alla Milano della boom che pure era stato un centro propulsore della cultura metropolitana italiana negli anni ’60, e negli anni ’70 fu di nuovo un centro tumultoso e certo più disperato, grigio e nebbioso con le fabbriche ancora (per poco) in piedi, di vite da cambiare, da suonare, da fuggire. E occupare scuole, periferie, il viaggio in India, la militanza politica, sfondare ai concerti, la p38 in via De Amicis, 1977 (come la foto che chiude anzitempo un decennio).

Tempi in cui la musica pop – si chiamava così, allora – faceva i conti tutti i giorni con la “politica”. E la politica con la vita. Era il bassista con gli Stormy Six, Claudio Rocchi. Li lasciò quando il gruppo di Franco Fabbri ebbe la sua “svolta” militante con l’album L’Unità (bellissimo comunque), che si chiude giusto con un pezzetto feroce dedicato a Claudio. Citiamo in breve: “Quando l’ultimo sfruttatore/l’ultimo corruttore/ l’ultimo carrierista (…) saranno scomparsi da questa terra/allora sarà giunto il vostro momento/ di parlarci d’amore/ (…) Ma forse tu/ fratello/non ci sarai più”.

Con Mauro Pagani, Alberto Camerini, Eugenio Finardi, Donatella Bardi (una voce che ti entrava nella pelle, scomparsa giovanissima anche lei) aveva invece realizzato quattro album tra il 1970 e il 1974, che stanno di diritto tra i documenti più importanti dei nostri anni ’70. Il secondo, in particolare, Volo Magico n. 1, è aperto da una suite lunga un’intera facciata per chitarre, voci, bonghi, sitar, di pura estasi frikkettona e messa in pratica del rifiuto del lavoro, inneggiando a “pane, suono aria, voci, amici, roba, far l’amore”. E prosegue con “La realtà non esiste”, idillio neobuddista per pianoforte e voce, intrecciato alle esperienze spirituali di Claudio Rocchi (che coivolsero negli anni successivi molta parte del gruppo di Re Nudo).

Rilanciate da youtube e dalla retromania quelle vecchie canzoni ci erano tornate in mente come reperti quasi indecifrabili, con un fascino intatto, e un retrogusto di rabbia e nostalgia. Rocchi nel frattempo – dopo anni passati a occuparsi di mille cose pratiche e spirituali – negli ultimi anni era tornato a suonare, a scrivere, a usare internet per fare crowdfunding e battagliare contro la mala gestione della Siae. Aveva inciso un album accompagnato da Gianni Maroccolo (ex Litfiba, ex Csi), che faceva parte della generazione successiva alla sua, anni 80 post-politica, ma aveva ancora memoria per ricordare quell’irripetibile codice estetico e soprattutto politico. Come tutti quelli che oggi lo ricordano, un pezzo della canzonetta della propria vita.