Le cronache raccontano che avesse scelto un lungo abito dorato. Tuttavia nelle molte fotografie scattate durante la serata Fausta Cialente si direbbe invece indossare un semplice chemisier a righe. Il bianco e nero dei quotidiani, gli ingrandimenti spesso sgranati incoraggiano parecchie congetture. L’abito forse ha le tasche e forse una cintura. Forse è di seta, forse le righe o il fondo chiaro ripetono tonalità di azzurro simili a quella bellissima degli occhi. Si tratta comunque di una mise appropriata alla sua figura minuta e ai capelli così bianchi. Anche all’immagine sobria, elegante ma essenziale che il lettore dei suoi libri può essersi fatto di lei. La collana, questa sì, sembra preziosa. Chissà se è un ricordo degli anni passati in Medio Oriente o un’eredità degli avi triestini. Il fatto certo è che la sua vittoria non sorprenderà nessuno. Era anzi talmente prevedibile, scrivono i giornali, che la paura del cattivo gusto aveva vietato ogni pronostico. Lei stessa dirà subito dopo con la solita franchezza: «Devo essere sincera. Il premio me lo aspettavo».
È l’8 luglio 1976 e al ninfeo di villa Giulia va in scena la trentesima edizione dello Strega. Il cielo minaccia un temporale che non esploderà. Fausta Cialente ha settantotto anni: tra i vincitori resta l’età più alta. Per numero di voti ha quasi doppiato Ottiero Ottieri, è massimo il distacco dagli altri concorrenti. Al microfono dice appena due parole e fa un sorriso molto timido mentre solleva le braccia per mostrare l’assegno ai fotografi. La strada che l’ha portata su quel palco segue del resto un tracciato assai poco lineare e spesso in ombra. A sentirsi differente lei ci è abituata: eccentrica rispetto all’ambiente letterario italiano, estranea a mode o correnti, in anticipo sul proprio tempo ma ogni volta fatalmente in ritardo. Nata per caso a Cagliari, cresciuta in città sempre diverse, durante il matrimonio, dal primo al secondo dopoguerra, era vissuta in Egitto. Qui aveva composto tanto il romanzo d’esordio Natalia (1930) quanto lo straordinario Cortile a Cleopatra (’36), usciti entrambi da piccole case editrici e rimasti entrambi sconosciuti fino alle rispettive, comunque tarde ristampe. Quando aveva perso lo Strega per un voto con il terzo libro Ballata levantina, nel già lontano 1961, non erano stati in pochi a pensare che si trattasse di una debuttante assoluta benché non sembrasse certo una ragazzina. Nel ’94, quando morirà a casa della figlia nel Berkshire dove si era trasferita, saranno in molti a meravigliarsi che fosse ancora viva.
In quell’estate 1976 la scrittrice si gode finalmente con il premio una notorietà che non ha mai avuto e che non ritroverà nemmeno postuma, benché lo spettro innovativo dello stile, la temperatura morale delle ragioni narrative collochino la sua opera tra le maggiori del nostro Novecento. Il libro, l’ultimo che scriverà, vende duecentomila copie e due anni dopo Mondadori lo ristampa negli Oscar. Lei stessa sembra meravigliata di questo successo così improvviso e ormai inatteso. La vicenda che narra oltretutto non l’ha proprio inventata. «È la prima volta che racconto di me in modo completo e crudo. Vorrei che il libro fosse preso per la testimonianza di una donna che parla del suo tempo. Attraversa più di mezzo secolo; e io sono stata, presto, una ribelle», aveva detto a Laura Lilli in una lunga intervista uscita su Repubblica un mese prima delle votazioni per la cinquina dello Strega. Riedito adesso dalla nuova Tartaruga dopo quarant’anni esatti di assenza, introdotto da un luminoso e intenso ritratto dell’autrice che firma Melania Mazzucco, Le quattro ragazze Wieselberger (pp. 266, € 18,00) è l’unica opera apertamente autobiografica pubblicata da Fausta Cialente. Tanto che l’indicazione di «romanzo», stampata sul frontespizio di entrambe le edizioni Mondadori, sarà messa in dubbio da molti recensori a partire da Luigi Baldacci, che nel suo articolo parla di una «chiave» letteraria decisamente diversa da quella della «narrativa d’invenzione». Ma il libro si può definire allora una «testimonianza» in senso stretto? È davvero un racconto «completo e crudo»? E cosa vuole confessarci l’autrice quando usa l’aggettivo «ribelle» per descrivere se stessa dentro il «mezzo secolo» che ripercorre? Vicenda esemplare di una donna ribelle al tempo che le è toccato di vivere e alle sue menzogne, soprattutto al proprio destino femminile, Le quattro ragazze Wieselberger realizza già dal titolo una precisa ribellione ai codici. Anche a quelli dell’autobiografia e del memoir.
Sono le quattro ragazze del titolo la madre e le zie dell’autrice. Quattro bellezze, quattro piccole donne cresciute nella Trieste asburgica e irredentista, le quattro sorelle Malfenti di cui lo sveviano Zeno sposerà ovviamente quella sbagliata. Il libro si apre in effetti sulla loro giovinezza spensierata e protetta per procedere poi verso la loro disillusa e amara maturità. Tuttavia non è esattamente la loro storia quella che Fausta Cialente narra ai suoi lettori. Suddiviso in quattro parti, analoghe anche per la variazione tonale ai quattro movimenti di una sinfonia, il racconto sterza bruscamente già con l’inizio della seconda: la scrittrice mette in scena se stessa e dal centro del palcoscenico, lasciando le sorelle sullo sfondo, non esce più fino all’ultima pagina. Contano le quattro ragazze solo per quello che il loro destino insegna all’autrice. La madre costretta a rinunciare alla sua carriera di soprano, il padre ufficiale disfattista e collerico, la zia appesantita dalle gravidanze e dai tradimenti del marito, il nonno musicista aggrappato ai suoi sogni di cultura e di pace, il cugino caduto da volontario nella prima guerra mondiale durante un’azione inutile per una patria che nemmeno conosce, il molto amato fratello attore forse non accidentalmente travolto da un’ambulanza nazista dopo avere recitato Gorkij nella capitale occupata: tutti i personaggi che affollano le pagine del libro svolgono un ruolo esatto nella storia di cui la narratrice è protagonista assoluta. Ogni fatto raccontato contribuisce a formare la sua lucente coscienza di «ribelle», disegna per lei una strada che non segue il quieto destino assegnato alle donne, incide nella sua testa quel rifiuto della discriminazione, della violenza, della menzogna cui la sua vita si manterrà fedele.
«Credo che non avrei potuto concludere la mia fatica di tanti anni e il mio impegno molto più civile che letterario senza raccontare come da tutto questo io sono venuta e come tutto quanto mi abbia precocemente turbata e maturata», dirà ancora in un’intervista pochi giorni prima dello Strega. Non si tratta però solo della «ribellione» politica di Fausta Cialente, di quella sua scelta comunista che dopo il rientro in Italia si manifesterà nell’intensa collaborazione a l’Unità, «Rinascita», «Noi Donne»; di quella militanza antifascista che già in Egitto – lo dimostra il molto ricco e avvincente saggio biografico Radio Cairo firmato lo scorso anno da Maria Serena Palieri per Donzelli (pp. 244, € 25,00) – l’aveva spinta a impegnarsi in un massacrante lavoro di propaganda a fianco dell’esercito inglese. Quello che l’autrice intende più esattamente raccontare con Le quattro ragazze Wieselberger, nella sua lingua morbida ma asciutta, limpida e mai sentimentale, è la «ribelle» decisione di essere scrittrice. «Muoiono le persone, le cose, e muoiono anche i ricordi; ma se la visione della soffitta padovana mi rimane è forse perché lì dentro nascosta cominciai di nascosto a “scrivere”», confessa giusto a metà della sua storia. Né scrivere potrà per lei mai avere un’accezione diversa da testimoniare, scegliere, illuminare. In una parola ribellarsi. In tempi così bugiardi e oscuri il ritorno di questo libro è una benedizione per il cuore.