Giornalista e critico musicale esperto di cultura pop americana, Chuck Klosterman è maestro nel ribaltare con ironia le certezze più consolidate, spiazzando il lettore con ragionamenti che sfidano le nostre convinzioni e ci restituiscono spaccati inediti e originali della società contemporanea. In uno dei suoi saggi più riusciti, «But What If We’re Wrong» (del 2016) propone un esperimento mentale tanto intrigante quanto rivelatorio: se ci sforzassimo di «pensare al presente come se fosse il passato» ci accorgeremmo che ciò che riteniamo inequivocabilmente vero risulta quasi sempre sbagliato (o irrilevante) dal vantaggio di una prospettiva futura. Quante scoperte scientifiche e grandi opere letterarie furono considerate non solo incomprensibili ma addirittura inconcepibili dal pubblico contemporaneo?

Forse meno nota ma altrettanto interessante è la produzione narrativa di Klosterman, di cui Alter Ego edizioni propone ora il secondo romanzo, L’uomo visibile (traduzione di Leonardo Taiuti, pp. 290, € 16,00). Pubblicato negli Stati Uniti nel 2011, il romanzo è una rivisitazione in chiave postmoderna dell’Uomo invisibile di H.G. Wells e ruota intorno a un noto problema epistemologico portato alle estreme conseguenze dal protagonista: se è vero, come afferma il principio di indeterminazione di Heisenberg, che l’osservatore influisce inevitabilmente sull’osservazione alterandone i risultati, allora una disciplina come la psicologia non avrebbe alcun valore euristico, perché non ha senso studiare il comportamento di una persona che sa di essere studiata.

Le vicende sono narrate attraverso le e-mail e le annotazioni della psicoterapeuta Victoria Vick, che riporta e analizza le conversazioni avute con un suo paziente, identificato come Y___, inviandole al proprio editor in vista della pubblicazione di un libro.

Y___ ha inventato una tuta mimetizzante che riflette la luce in modo da far apparire chi la indossa indistinguibile dall’ambiente circostante, e l’ha usata per «studiare» di nascosto il comportamento delle persone sole in casa, talvolta intromettendosi nelle loro vite. Queste premesse fantascientifiche si rivelano subito un pretesto per una serie di brillanti monologhi in cui Klosterman, con l’ironia pungente che contraddistingue il suo stile, disseziona attraverso la voce del protagonista egocentrico e paranoico alcune ossessioni della nostra società: dal ruolo dei media e dei social network («la gente ha bisogno di essere scrutinata e interpretata, così da convincersi che ciò che fa ha importanza») all’impulso voyeuristico dell’artista che aspira a inoltrarsi nella psiche («Se uno scrittore vuole provocare la compassione nei confronti di un personaggio, il modo più semplice è inserirlo in un contesto umiliante»), fino al paradosso di una mimesi che a sua volta rimanda all’improbabile «mimetizzazione» del protagonista: se la realtà è così banale che «una rappresentazione sincera offenderebbe le persone intelligenti», allora l’artista/osservatore ha il dovere morale di intervenire sulle vite degli altri, manipolandole per renderle rappresentabili in modo realistico.

Klosterman non si limita a proporre ragionamenti provocatori, ma riesce a costruire una trama coinvolgente basata sulle complesse dinamiche psicologiche ed emotive che si instaurano tra i due personaggi; al contempo, stabilisce un continuo dialogo metanarrativo con gli antecedenti letterari più illustri: il novello uomo invisibile, ad esempio, si infuria nel sentirsi definire tale, e nella sua arroganza non ammette paragoni con il protagonista del quasi omonimo romanzo di Ellison – «Non siamo negli anni Cinquanta, e io non sono nero»; tantomeno li ammette con Wells, accusando la psicoanalista dello stesso snobismo riservato dai critici all’autore inglese: «Scommetto che non è argomento di studi all’Università di Phoenix».

Nel corso degli anni il romanzo di Wells è stato letto dalla critica come satira anticapitalista (l’invisibilità del protagonista rappresenterebbe una metafora dell’impersonalità dell’economia di mercato) o come esemplificazione della crisi dell’artista visionario e alienato, che sviluppa verso il pubblico incapace di riconoscere il suo genio un risentimento talmente profondo da condurlo alla follia.

Eppure, nonostante l’enorme successo popolare del romanzo (o forse proprio perciò), una parte dell’establishment culturale continua a considerare L’uomo invisibile un libro meramente commerciale, relegandolo nella letteratura di genere. Lo stesso Klosterman sembra sottolineare ironicamente il paradosso quando alla fine del suo Uomo visibile fa affermare alla narratrice: «Sono molti i motivi che mi hanno spinto a scrivere questo libro, ma il principale sono i soldi».