Per chi ha partecipato all’anteprima stampa del 26 aprile, la possibilità di ascoltare l’artista americano introdurre la propria mostra in Triennale è stata un’occasione importante, rivelatrice di un modus operandi dialettico – l’idea della presentazione-visita è stata dello stesso artista con i curatori dell’esposizione, Pia Bolognesi e Giulio Bursi (Atelier Impopulaire). Artista «che pensa fotograficamente», Williams, formatosi al California Institute of the Arts alla fine degli anni ’70 con John Baldessari, Douglas Huebler e Michael Asher, è il maggior esponente della seconda generazione della Conceptual Art americana. Da allora ha sviluppato una pratica che fin dalle prime opere ha trasceso i limiti e i confini del medium fotografico, attraverso un corpus di lavori che va dal collage alla scultura, dal video al film, dalla performance al printed matter.
In «Models, Open Letters, Prototypes, Supplements»« – visitabile fino al 25 giugno – «Williams analizza i complessi e stratificati meccanismi mediante i quali la comunicazione e le convenzioni estetiche strutturano il nostro modo di percepire la realtà», attraverso la disposizione di una serie di opere fotografiche realizzate tra il 2008 ed il 2017 su tre diverse tipologie di muri disposti nei grandi spazi del Cubo B e C del Palazzo dell’Arte, in maniera tale da creare, in una continua tensione tra i volumi architettonici, nuove possibili geometrie dello sguardo.
LA LETTERA APERTA AL PUBBLICO
«Models, Open Letters, Prototypes, Supplements» rappresenta il momento conclusivo di un percorso importante per l’artista americano che ha visto Williams confrontarsi con una serie di esposizioni incentrate sull’idea di estensione nello spazio, della formale dualità del modello comunicativo della lettera aperta.
Indirizzata ad un artigiano cappellaio di Colonia, la lettera aperta scritta per il pubblico di Milano ci informa del lavoro impiegato nella costruzione e rifinitura dei muri dell’esposizione: ore, giorni, tecniche di realizzazione, materiali impiegati e nomi dei lavoratori e delle aziende intervenute – e questo come a suggerire una necessità e un’urgenza di sottolineare un legame non solo consequenziale tra atto della produzione e lavoro artistico. Quello che a prima vista si potrebbe considerare solo un lungo elenco di nomi e persone che hanno «fatto» la mostra, distribuito ad ogni spettatore come «introduzione» diventa indicazione per considerare il percorso-visita quantomeno in due possibili «direzioni»: una lettura delle immagini che sia, per così dire, alla lettera, e una certa idea di comunicazione.
Questo processo, iniziato dalla lettera distribuita all’ingresso, viene amplificato nella disposizione dei lavori fotografici nella prima sala della mostra, una disposizione delle fotografie esclusivamente su muro, senza didascalie, un percorso che si pone come un ipotetico diagramma visuale attraverso cui il visitatore è a tu per tu con figure-in-immagine molto diverse tra loro – muri, animali, donne, frutti, natura, dispositivi fotografici – e il cui senso del loro accostamento risiede nella loro natura di nostri oggetti culturali quotidiani e nelle pertinenze funzionali delle loro composizioni. In sintesi, le fotografie di Williams sono modelli, di pose e di significati, riflettenti sull’insidioso legame tra la fotografia e i processi di produzione e sui dissimulati nessi sociali e politici che il capitalismo accuratamente e brutalmente conserva. Nella seconda sala le relazioni evidenziate nei lavori fotografici vengono approfondite attraverso tre elementi: sui muri perimetrali dello spazio vediamo un’accumulazione di immagini di apparati fotografici, elementi sparsi di macchine e lenti disposte alla maniera di collage, come fossero tipologie di corpi (in aggiunta, come una specie di contrappunto a queste accumulazioni, ci sono – sempre sui muri – immagini per così dire ideali, quelle che queste macchine possono registrare, si va dalla natura alla famiglia modello). Al centro, invece, si trovano le vetrine dove sono esposte le open letters di Williams e il materiale supplementare a cui fa riferimento il titolo, documenti che forniscono un contesto storico e valgono come fonti: dentro si trovano riferimenti a Straub-Huillet, copertine dello Spiegel, musica, con un raro 45 giri degli Scritti Politti, Skank Bloc Bologna, e molto altro. Infine, come terzo elemento in sala, abbiamo la presenza di muri-modello – già presentati, in fotografia, sul muro posta all’inizio della mostra e valevoli come segno.
Tre elementi che insieme sembrano essere tanto parte del tutto, cioè della mostra, quanto porsi come suo meta-discorso, apertura.
DAL PROTOTIPO AL POTENZIALE DEL FUOCO
Che cos’è un prototipo se non il primo esemplare di una produzione?
Nel titolo della mostra la parola, al plurale, è tra lettere e supplementi. Oggetti-prototipi se ne possono trovare in alcune fotografie della prima sala, e possiamo percepirne la presenza visiva nei collage della seconda sala e più in generale se ne può avvertire il senso in relazione alle lettere aperte di Williams esposte nelle vetrine, per quanto dicono del suo lavoro (un lavoro che sembra una disseminazione di tracce, tra mostra e mostra). Ogni modello può già di per sé essere pensato come, in potenza, prototipo. È la sua materialità non data come acquisita culturalmente. La discriminante è l’evoluzione della forma. Muri, immagini, tutto lo spazio, ogni cosa ne può essere implicata. Allora tutto sta in come si guarda cosa, nel sospendere certi sistemi di significazione per farne funzionare altri. In quest’ottica, la visita alla mostra di Williams potrebbe diventare l’occasione per un’osservazione tendente a coincidere con quella dell’artista, una visione aperta a tutti i dettagli. Come scrive Williams nel suo addendum alla lettera aperta, ultimo elemento mostrato nella sequenza delle vetrine: «qui alla Triennale di Milano, la presenza del colore rosso è inevitabile, colore che naturalmente ci fa pensare al colore rosso utilizzato dalla rivista Il Politecnico. Questo rosso è presente nel design dei programmi del museo, nell’immagine coordinata, così come si ritrova sulle felpe dello staff, ed è il colore delle panche e delle sedie del museo. Ma forse, più evidente, è la presenza pervasiva delle istruzioni e strumentazioni della sicurezza antincendio. Nella sala principale della mia mostra, conto da solo 7 estintori, 4 attacchi per gli idranti nei muri, 2 uscite di sicurezza, una porta tagliafuoco, 4 allarmi antincendio, e una serie di indicazioni e frecce che ne segnalano la presenza. Tutto questo per 8 muri e 19 fotografie esposte. Sembra che a Milano in generale, ma anche qui alla Triennale, ci sia una specie di sottile e costante isteria legata al potenziale del fuoco.»