Qualunque tentativo di comprendere il rapporto tra diritto e violenza si trova davanti a una doppia constatazione: da un lato, le forme del diritto mirano a impedire la proliferazione incontrollata della violenza, dall’altro la loro effettualità ne implica necessariamente l’esercizio. Parte da questo paradosso il libro di Christoph Menke, Diritto e violenza (Castelvecchi, pp. 144,€ 17,00) con un puntuale saggio del traduttore Giovanni Andreozzi, che ne inquadra la prospettiva giusfilosofica. Il merito di Menke sta proprio nel non volere sciogliere in maniera unilaterale la contraddizione che lega diritto e violenza, radicalizzandone invece le conseguenze al punto tale da raggiungere una sorta di superamento dialettico, capace cioè di conservare, senza obliterarli, i momenti che lo generano.

Davanti al nesso costitutivo tra violenza e diritto, due sono infatti le tentazioni: da una parte, contrapporre astrattamente diritto e violenza assumendo un «idealismo normativo» che, come chiarisce Francesco Mancuso nella sua bella introduzione, finisce per concentrarsi «esclusivamente sulla primazia dei diritti», illudendosi di poter disattivare ogni conflitto e ogni violenza tout court. E d’altra parte, riconoscere le contraddizioni sempre presenti in ogni effettività normativa, con il suo necessario carico di coercizione, rischia di concluderne frettolosamente l’identità con la violenza: il diritto, in quest’ottica, altro non sarebbe che violenza organizzata.

Proprio per uscire da queste alternative apparenti, il testo di Menke sviluppa in maniera brillante un percorso di ricostruzione genealogica e di articolazione dialettica del problema. Nella prima parte, attraverso un confronto con la tragedia classica – riconosciuta qui come «forma espositiva del diritto» – viene esposto il paradosso di un superamento della logica pregiuridica della vendetta e del sacrificio che si realizza però proprio attraverso la sua proceduralizzazione: questa genesi mostra come «la violenza non appartiene solo all’apparenza, ma alla stessa essenza del diritto» e precisamente alla «sua forma politico-procedurale». Ciò significa che il problema del diritto non consiste tanto e soltanto nel suo essere imposto con la violenza, né di usarla come mezzo; piuttosto, questo carattere strumentale della violenza ne diviene scopo, in quanto fondamento della sua «autoconservazione».

Come uscire dalla impasse? Sulla scorta di Benjamin, nella seconda parte del saggio viene sviluppato il concetto di «destituzione» del diritto, interpretata da Menke come «contro-programma» rispetto alla sospensione schmittiana del caso d’eccezione: la destituzione indica qui una «revoca» che, secondo l’etimologia del termine tedesco Entsetzung, include anche una «liberazione». Destituzione del diritto non significa quindi né la fine del diritto in direzione dello scatenamento della nuda forza o della decisione anomica, né la rimozione astratta della sua violenza costitutiva, quanto piuttosto la fine della «guerra» che oppone il diritto al non-diritto. Il conflitto andrà dunque spostato dall’esterno all’interno del diritto, secondo un movimento di autoriflessione che mette il diritto stesso in conflitto con se stesso.