Ha racchiuso dentro una sorta di bunker, che era anche uno smisurato armadio guardaroba o uno studio di registrazione radiofonica, i rappresentanti della classe dirigente della rinata Germania, uomini politici o funzionari di stato, manager o intellettuali poco importa, impegnati in un corso di formazione politica, un training fisico e gestuale sull’arte della retorica incorniciato dalle parole vuote dei discorsi commemorativi, discorsi reali di politici e scrittori dal dopoguerra in avanti fatti a pezzi e ricomposti in un collage di gusto dadaista.

Ha lanciato in orbita una classe morta di anziani “specialisti”, tutti dotati di qualche conoscenza speciale che però non sembra servirgli molto, costretti anzi come sono a ripetere all’infinito le stesse parole senza più senso, mentre viaggiano chissà per dove, quel che conta è viaggiare ancora in prima classe.

Ha messo alla berlina il gruppo di burocrati e maneggioni, manager e finanzieri creativi, esperti di marketing e di pubblicità che accompagnano verbosi e impotenti il naufragio economico della compagnia aerea Swissair, uno dei simboli della precisione di cui la Svizzera andava fiera, allo stesso tempo riproducendo fedelmente in quel gruppo il consiglio di amministrazione dello Schauspielhaus di Zurigo che lo aveva cacciato e poi richiamato a furor di popolo.

Ha trasformato in un vascello ebbro l’Illiria favolistica della Dodicesima notte; scelto una modesta trattoria per mettere in scena La morte di Danton di Büchner, a ricordarci che la rivoluzione non è un pranzo di gala; ambientato in un laboratorio di lingue attrezzato con antiquate apparecchiature audio gli insensati esercizi di pronuncia proposti alla classe da un emulo del professor Higgins di My fair lady, che si ingarbuglia lui stesso nei suoi tormentoni linguistici.

Da vent’anni Christoph Marthaler riesce a sorprenderci con le sue creazioni. Ce lo aveva fatto subito amare quel rivelatore Stunde Null che celebrava a suo modo i “cinquant’anni di dimenticanza” della più recente storia tedesca, l’Ora Zero (così suona il titolo) che cancellando con un tratto la storia precedente si poneva a fondamento di un nuovo inizio del paese. Con quell’irresistibile vento di follia che rappresenta uno degli elementi più riconoscibili del “Marthaler touch”, lo stile inconfondibile dell’artista, la sua capacita di colpire lo spettatore per profondità e leggerezza.

Al regista svizzero la Biennale teatro ha assegnato quest’anno il Leone d’oro alla carriera, e al di là dell’inevitabile genericità delle motivazioni è indubbio che viene premiato uno degli artefici più rilevanti della scena contemporanea. (Il Leone d’argento per l’innovazione va invece all’ensemble catalano Agrupación Señor Serrano che a Venezia si presenta con A house in Asia, descritto come un western teatrale dove la realtà e i suoi doppi si mescolano e Bin Laden s’incontra con il capitano Achab, la cerimonia di premiazione a Ca’ Giustinian avrà luogo il 3 agosto).

A Marthaler tocca anche il compito di dare il via al Festival del teatro diretto da Alex Rigola, giovedì prossimo. Lo spettacolo scelto è Das Weisse vom Ei/Une île flottante, un titolo che cita uno dei più noti dessert della cucina francese ma dietro nasconde una commedia di Eugène Labiche, La polvere negli occhi. E viene il dubbio che tutto il teatro di Marthaler abbia un po’ a che fare con il vaudeville, rivisitato alla luce della rivoluzione teatrale novecentesca.

Eccoci allora di fronte a uno di quegli spazi chiusi che abbiamo imparato a ritrovare nei lavori di Christoph Marthaler. Reclusori spazi in odore di passato prossimo da cui sembra impossibile uscire, dal bunker di Stunde Null al vascello da odissea spaziale degli Spezialisten o la sala d’attesa di Groundings, dalla sala delle feste di una vecchia nave da crociera in Was ihr wollt alla stanza d’albergo di King Size. Abitati da personaggi che sembrano finiti lì dentro per qualche sconosciuta colpa, vestiti sempre in maniera impersonale, senza volontà di eleganza, fuori da un tempo riconoscibile.

Lo spazio scenico è un elemento fondamentale per il regista. È il luogo dell’azione a dare per primo il clima del dramma. E non se ne scappa. Abbagliati dall’apparente realismo dell’ambientazione, spesso ci si mette un po’ a scoprire che quel luogo chiuso è più ambiguo e indefinito di quanto si voglia far credere. Però ci si accorge presto che qualcosa non torna, che ad esempio quell’interno rivestito da carta da parati è anche un esterno su cui si affacciano balconcini e lampade stradali, si aprono serrande di garage da cui irrompe il rumore di un motore che stenta a partire. Uno spazio metamorfico che ne racchiude altri, o che si apre su una realtà parallela, come in certi quadri surrealisti.

Questa volta il geniaccio di Anna Viebrock ha disegnato per il regista un interno ingombro di arredi, sotto i ritratti familiari che riempiono le pareti. Ambiente borghese, all’apparenza. Dopo tutto al centro della pièce di Labiche ci sono due famiglie, i Malingear e i Ratinois, che si incontrano per fare la reciproca conoscenza, i figli si amano, c’è forse un matrimonio in vista. La prima parla francese, la seconda tedesco nello spettacolo di Marthaler (situazione per altro non eccezionale se guardata dalla Svizzera) e la babele che ne nasce ha la sua parte nel far esplodere i meccanismi linguistici scatenati dal desiderio di ciascuna famiglia di gonfiare la propria condizione sociale di fronte all’altra.

Il lavoro di Marthaler nel teatro non è però mai quello di mettere in scena un testo, se con ciò si intende la sua rappresentazione. Siamo nel campo della creazione, e non fa differenza se dietro ci stanno Shakespeare o l’Ödön von Horvath di Glaube Liebe Hoffnung, se si parte da un delirante collage di discorsi politici o da un musical di Broadway come nell’ancora recente Meine faire Dame che faceva a pezzi il più celebre My fair lady; o se al contrario si tratta di dare veste teatrale alla barocca Incoronazione di Poppea di Monteverdi e nello strepitoso Winch only vien fuori uno slalom musicale che va da Bach ai Kinks, attraversando anche Schubert, Massenet e Schönberg, in un gioco di specchi con un testo altrettanto contaminato. Il testo entra in un continuo cortocircuito con la drammaturgia musicale, spingendo la messinscena verso i confini del musical o del vaudeville appunto. Gli attori recitano la loro commedia, una sorta di commedia con musiche che si sovrappone a quella d’origine, e lentamente l’assorbe.

Marthaler è musicista di formazione, pur se di gusto per nulla accademico, e dunque è comprensibile il ruolo primario che occupa la drammaturgia musicale nel suo lavoro, quanto essa interagisca con i corpi degli attori (e sono sempre attori straordinari). Anche da questo dipende la sua capacità di divertire, di non annoiare mai. Anche in Das Weisse vom Ei/Une île flottante, il tessuto musicale è privo di confini di tempo o di genere, la musica sacra di Mozart e Schubert accanto a molta musica da film, l’easy listening dell’orchestra di James Last e le canzoni dello chansonnier francese Boby Lapointe caro anche a Truffaut, fino alla Downtown di Petula Clark che spopolava negli anni ’60…

Il tempo che conta è quello che scorre sulla scena, un tempo da condividere, da riempire con azioni e parole e con quelle musiche che appartengono a tutti. Non per caso l’inizio degli spettacoli di Marthaler è sempre rarefatto. A lungo sembra non succedere nulla. Quell’attesa iniziale sembra fatta per darci il modo di posizionare lo sguardo, di trovare il nostro posto in un mondo che tuttavia vive anche senza di noi, di abituarci alla sua luce e alle facce dei suoi più abituali frequentatori. E dopo un po’ ci sembra di conoscerli quei personaggi che in realtà ci accompagnano da vent’anni. Se è vero che lo sguardo sulla scena non è mai innocente, Marthaler è uno dei pochi artisti della scena capaci di cambiare il nostro sguardo sulle cose.