Quando ha esordito con Pilots (’95) Christian Petzold è diventato subito uno dei protagonisti di quella «nuova generazione» del cinema tedesco che aveva cominciato a apparire negli anni Novanta. Poi, all’inizio del nuovo millennio, è arrivato Die Innere Sicherheit (2000) con una materia sensibile, il terrorismo in Germania negli anni Settanta affrontata senza clamori né spettacolarizzazioni. Al centro c’è una coppia di ex militanti della Raf – Rote Armee Fraktion – ma il punto di vista narrativo è quello della figlia dei due, adolescente in una esistenza ancora clandestina, il cui disagio verso i genitori pone nel passaggio di Petzold interrogativi che dalla vita familiare si aprono alla Storia collettiva della Germania. Questo movimento ha continuato a caratterizzare i film successivi componendo una cartografia del Novecento – e del presente – capace di cogliere con precisione la realtà del tempo e di restituirla nei generi più classici del cinema: il noir, il melodramma, Hitchcok, Sirk, Lang che incontrano le «interferenze» di Harun Farocki, maestro di Petzold alla DFFB – la scuola di cinema e televisione di Berlino – per raccontare la crisi finanziaria (Yella, 2007), la Germania divisa dal Muro (La scelta di Barbara, 2012), o come nel meraviglioso Phoenix – Il segreto del suo volto – il destino dei sopravvissuti ai campi di concentramento nella società tedesca post-nazista con la vertigine di una «donna che visse due volte».
E un melodramma è anche Transit – in sala da oggi col titolo La donna della scrittore – che Petzold dedica a Farocki (mancato nel 2014), collaboratore di molte delle sue sceneggiature, col quale aveva già iniziato a lavorare all’adattamento del libro di Anne Seghers, Transito, che Farocki – come racconta Petzold – voleva portare sullo schermo negli anni sessanta, quando era studente di cinema. «Ci piaceva l’idea della transizione espressa da Seghers, dei suoi personaggi che non hanno una casa dove tornare» dice Petzold che ha appena finito una serie per la tv tedesca. Da Berlino, dove vive, ci parliamo su FaceTime.

I suoi film si confrontano con momenti storici precisi della Storia tedesca e occidentale tra il ’900 e oggi. In «Transit» le due epoche si fondono.

Non ho mai pensato alla Storia come a un museo, preferisco immaginarla come una stanza in cui l’eco della Storia arriva nella contemporaneità e viceversa, e il passato e il presente parlano tra loro. Una delle mie serie tv preferite è The Sopranos, con i personaggi di emigrati italiani in America che pensano – e si rappresentano in una Italia che non esiste più. L’immagine del «transito» che nel libro di Seghers è un luogo tra l’Europa e il Messico, si allarga a una zona di passaggio temporale. Anche il protagonista, Georg, è in transito, fugge nella Francia occupata dai nazisti e attraversa una trasformazione. Leggendo il manoscritto che ha trovato per caso capisce di essere anche lui un rifugiato senza storia, senza identità e dopo avere assunto quella dello scrittore è costretto a cambiare.

Come ha lavorato sul libro?

Cerco di pensare a un libro come a un plot. Insieme a Farocki avevamo iniziato a adattarlo qualche anno fa, poi lui è morto e io l’ho messo da parte, mi faceva troppo male. È stato Harun a farmelo conoscere, era il riferimento per tutti i nostri film con le sue esistenze sospese tra camere d’albergo e mondi diversi. Dopo Phoenix mi ha detto che era il momento di farlo. Non abbiamo mai considerato la possibilità di girare un film in costume, volevamo cercare delle risonanze tra quel tempo e il nostro.Il libro segue diversi fili, c’è Georg, che è vuoto e ci sono i rifugiati che hanno molte storie da raccontare; lui le utilizza in modo un po’ vampiresco come fa l’artista che spesso assorbe le esperienze dalle persone per creare qualcosa fuori di loro. Io vorrei sempre mantenere le due posizioni, l’artista e colui che è accanto agli altri, mi rendo conto però che a volte sono un vampiro specie con gli attori. Quando ho ripreso il film sono andato a Marsiglia, dove è ambientato, ho visto il Mucem che è nato come una fortezza per difendere la città e che oggi è diventato il museo del Mediterraneo. Nella sua architettura esprime il progetto di un’Europa unita, aperta ma mentre ero lì arrivavano i rifugiati dalla Siria, dal Nordafrica e l’Europa appariva invece ostile e militarizzata. È stato uno dei primi spunti, poi Marsiglia nonostante la gentrificazione conserva la stessa atmosfera, è una città fuorilegge e imprevedibile.

Georg e soprattutto Marie, che continua a cercare disperatamente il suo amato sono presenze fantasmatiche. E il fantasma è una figura che torna in tutti i suoi film.

Forse perché il cinema ama i fantasmi, coloro che hanno perduto un amore, un lavoro, l’innocenza, e li accompagna nello sforzo di possedere di nuovo qualcosa anche con un gesto criminale. Ricordo mio padre, quando era rimasto disoccupato diceva di sé stesso che si sentiva come un fantasma. Poi ho scoperto il cinema coi film noir dei registi tedeschi scappati dall’Europa fascista in America come Lang, e i noir sono pieni di fantasmi.

Nel confronto con la realtà le sue immagini sono molto precise e al tempo stesso «tradiscono» con altro, il melodramma in particolare.

Mi piace pensare ai miei film come a «melodrammi protestanti» nei quali affiora il presente e la storia. Amo il melodramma e cerco di variarne la struttura, di non citare quella del passato ma di infondergli una forma contemporanea.

«Transit» è dedicato a Harun Farocki, quale è per lei la sua lezione più importante?

Mi ha insegnato a interrogare il mondo e la sua rappresentazione in modo che dopo ogni analisi appaia più ricco. Non è questione di critica ma di abbandonare le strade già segnate per cogliere nuove prospettive. È quello che accade in Die Innere Sicherheit coi due genitori che devono imparare a gustare di nuovo la realtà, lo fanno attraverso la figlia seppure distruggendola – credo che in Italia su questo tema il film migliore sia Buongiorno notte di Marco Bellocchio. O in Phoenix con la protagonista che vuole ritrovare la sua voce, come i tantissimi sopravvissuti ai campi di concentramento che per anni in Germania alla fine della guerra non sapevano dove andare e sono rimasti in altri campi. Del resto i poteri forti erano gli stessi del nazismo e del passato non si doveva parlare. Harun mi aveva detto che per lui l’inizio della rivoluzione era stato vedere Hiroshima mon amour di Resnais.