Un secolo e mezzo fa Karl Marx scriveva che non ci sono crisi permanenti, ma quella che oggi stiamo vivendo sembra esserlo. Arrivati al suo ottavo anno, proviamo a farne una periodizzazione con Christian Marazzi, teorico militante a cui la definizione di economista va stretta, che da tempo anticipa gli elementi principali della crisi attuale (si veda per esempio la sua raccolta di scritti Il comunismo del capitale). Ora qualcuno parla di una fase «post-austerity»: cominciamo con il capire se è davvero così e cosa questa fase significa realmente.
«All’orizzonte si addensano nuovamente elementi di forte crisi, nella zona euro e su scala globale – esordisce Marazzi -. Ciò avviene dopo un periodo in cui le politiche monetarie delle grandi banche centrali americana, inglese e giapponese, con forte iniezione di liquidità, hanno cercato di attenuare gli elementi strutturali della crisi, giunta all’apice alla fine del 2011 in Europa. I maggiori analisti sono molto scettici sul tentativo del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi di far fronte ai problemi strutturali e alla deflazione con una sorta di quantitative easing in versione europea. Si può anche accesso al credito con tassi di interesse pressoché nulli, ma se le imprese non si rivolgono alle banche è perché non prevedono un rilancio della domanda di beni e servizi. Così non creano neppure occupazione. Ci sono poi le premesse per la riapertura della discussione sui destini dell’euro, una moneta che regge la crescita ma non la crisi. Nell’Unione Europea non c’è una forza politica sufficiente per far fronte alla Germania e alla politica di austerità che impone, anche per ragioni autorefenziali. La sinistra è ampiamente inadeguata sulle grandi questioni, per esempio su come rispondere ai movimenti di destra e di estrema destra che cavalcano gli effetti dell’austerità. Il quadro è fortemente aggravato dalle tensioni geopolitiche: quello che sta succedendo in Ucraina o in Medio Oriente ha effetti sull’economia tedesca. La crisi della zona euro ha poi a che fare con tendenze di fondo, già segnalata: lo spostamento di interessa della Germania verso Cina, Russia e Brics, mentre diminuisce il suo interscambio con l’Europa. Io continuo a credere che per la Germania l’Europa sia un fardello di cui in futuro potrebbe cercare di liberarsi. Allora, siamo a un punto di inizio che è peggio di un punto zero, perché nel frattempo gli effetti dell’austerità, in particolare la deflazione, si fanno sentire molto pesantemente».

Il nodo dell’Europa resta irrisolto, mentre procede la sua frammentazione. Draghi sostiene che è ora che si ceda sovranità all’Europa per le riforme strutturali; ciò alimenta la reazione «sovranista», ma al contempo pone seri problemi a un europeismo che non prenda atto di ciò che oggi l’Unione Europea è: un mostro. Che fare, dunque?

Lo manterrei irrisolto. Nemmeno la destra ha una forza sufficiente per frenare o riorientare questa crisi permanente. Per evitare di cadere nella trappola tra l’uscita dall’euro e un sostegno all’euro così com’è, con alcuni economisti e militanti avevamo avanzato la provocazione di una moneta del comune: resta però una prospettiva tutta da costruire. È stata intesa più che altro nei termini di monete subsovrane e parallele, con sperimentazioni magari interessanti, ma siamo ben lontani da una costruzione teorico-politica adeguata. Da salvaguardare è tuttavia l’intento politico, cioè porre un’istanza di redistribuzione della ricchezza con una valenza sovranazionale.

In questo scenario che peso ha il Ttip, l’accordo tra Europa e Stati Uniti?

Con questi accordi di libero scambio gli Stati Uniti vogliono accentuare l’egemonia sull’Europa. D’altronde il dollaro, pur con un ruolo diminuito come valuta di riserva, resta la moneta che decide dei flussi su scala mondiale, soprattutto nella crisi. Il tentativo di Washington è di uscire dal quantitative easing, e può darsi che l’acquisto di buoni del tesoro e di obbligazioni cartolarizzate venga effettuato con flussi di capitale dall’Europa. Ciò potrebbe favorire l’Europa sui tassi di cambio, con una svalutazione dell’euro dovuta anche alle politiche monetarie espansive della Bce. Ma, come accaduto alla Spagna, si possono avere tassi di povertà e disoccupazione molto elevati e, proprio per questo, un aumento di esportazioni competitive.
Tutti capiscono che c’è un problema di domanda e di distribuzione della ricchezza (come dimostra il successo del libro di Thomas Piketty), ma non sanno come rilanciarla. Credo che il capitale stia subendo una sua nemesi storica. Ha distrutto la classe operaia fordista, questo è il suo «capolavoro»; così ha però distrutto la dinamica legata all’essenza stessa del capitale, il suo essere un rapporto sociale, ciò che gli permette di crescere nella conflittualità. In un certo senso, la vittoria sulla classe operaia ha avuto un effetto negativo per il capitale stesso, con la forte difficoltà a perseguire degli obiettivi di suo stesso interesse, come una più equa distribuzione della ricchezza. Nelle politiche monetarie c’è un problema ancora più radicale della trappola di liquidità: quando il capitale ha distrutto la classe operaia attraverso la desalarizzazione, la decontrattualizzazione e la precarizzazione, si è privato della possibilità di integrare la liquidità nel circuito economico. Con la desalarizzazione si aprono le porte a un’integrazione della liquidità che crea rendite e reddito non come leva del consumo ma come ricchezza improduttiva, concentrata nel famoso 1% della popolazione. Le politiche monetarie non fanno altro che alimentare la finanziarizzazione e la concentrazione della ricchezza verso l’alto.

L’esplosione della forma-salario è quindi un problema che riguarda sia i movimenti di opposizione al capitale che il capitale stesso……

Si. Mario Tronti scriveva che era stato il silenzio operaio a portare alla grande crisi del ’29. La mancanza di lotte operaie e sociali opacizza anche la possibilità di sviluppare sentieri di crescita capaci di creare società. La centralità odierna della geopolitica riflette l’affannata ricerca di interlocutori su un piano globale; se però tutti i paesi sono in crisi o non riescono a crescere, si acuiscono le tensioni e contraddizioni geopolitiche. Ciò pone a tutti noi, che stiamo dalla parte del proletariato e dei soggetti della crisi, il problema di definire una lotta di classe post-salariale. La forza della relazione salariale era di comprendere la vita nella sua interezza, dalla formazione dei figli fino al pensionamento; oggi questa consequenzialità non c’è più. Oltre alle rivendicazioni sul reddito, ci sono esperimenti (tra cui quelli di cui parla il libro di Jeremy Rifkin sulla società della condivisione) che sono materia per elaborare delle strategie. L’organizzazione politica deve produrre il terreno dell’aggregazione e della condivisione, senza un prima e un dopo, nella contemporaneità tra lotta politica e lotta per la costruzione di tessuti e spazi condivisi.

È centrale la definizione di un campo di lotta post-salariale, in cui incarnare anche la questione del reddito. Un terreno può essere quello della fiscalità e delle tasse, emerso in movimenti come quello del 9 dicembre, con quelle caratteristiche spurie che da tempo hai individuato come connotazioni prevalenti delle lotte dentro la crisi. Cosa ne pensi?

È una questione inaggirabile. In molti paesi si è cercato di far fronte alla spesa pubblica e alla gestione del debito sovrano attraverso una fiscalità incrementale, che corre però il rischio di essere iniqua. Si pensi per esempio alla distribuzione patrimoniale: appena si toccano le aliquote sul patrimonio si colpiscono soprattutto i ceti più deboli, per quanto si parli di evasione fiscale. Lo stato innovatore della Mazzucato pone la questione di quanto denaro pubblico sia investito nella ricerca di base e di quanto sia appropriato privatamente. Dobbiamo costruire un ordine fiscale che abbia al centro ciò che di comune c’è nella crescita e nell’innovazione.

Dobbiamo anche chiederci cosa la fiscalità e le tasse significhino per le nuove figure del lavoro e per i soggetti della crisi, oppure le imposte comunali in quanto prelievo forzoso sui servizi alla collettività. Il rifiuto delle tasse può essere agito e diventare uno dei terreni di lotta post-salariale?

È da alcuni anni che, assieme ad altri, ho riflettuto sulla natura spuria di alcuni movimenti sociali; il problema è in che misura riusciamo a dare corpo a questa moltitudine, in quanto soggetti plurali che non si lasciano ridurre alla sintesi, e però sono accomunati dalla possibilità stessa di sopravvivere in una serie di ambiti, dalla speculazione immobiliare fino alle tasse, che sono forme di rendita dello Stato. Credo sia giusto cominciare a porre la delicata questione dell’organizzazione politica: non per fare salti in avanti, ma per affrontare tutte queste istanze nei termini di un agire politico che renda conto della deflagrazione sociale. È un passaggio obbligato iniziare a pensare all’organizzazione militante e politica da una parte in termini di condivisione, dall’altra come costruzione paziente di alleanze e linguaggi che ci permettano di capire e interloquire con questi soggetti della crisi.

Le mobilitazioni e i forti conflitti sociali in Brasile dell’anno passato sono avvenute in uno scenario di «aspettative crescenti». In Europa, ci troviamo in una situazione opposta, di aspettative decrescenti: in Italia il Jobs Act (che avrà un terreno di sperimentazione nell’Expo) istituzionalizza addirittura il lavoro gratuito. Ciò non produce in termini automatici conflitto, al contrario in molti casi innalza i livelli dell’accettazione. Possiamo leggere la crisi come un tentativo – connotato anche dal punto di vista generazionale – di normalizzare una radicale riduzione delle aspettative?

Ho l’impressione che si faccia molta fatica a render conto della sofferenza. Siamo in una società malata di dolore, di incapacità di reimmaginare qualche futuro anche a breve termine. C’è dunque il problema di pensare all’agire politico anche in termini di cura, il rifiuto della crisi come rifiuto della sofferenza. Il comune va dunque soggettivato e fortemente concretizzato. I contributi di Silvia Federici sulle esperienze di condivisione nella riproduzione sono preziosi per ricostruire dei tessuti di soggettività. Dal 2011 in poi, sembra che i movimenti sociali non si siano posti il problema della «verticalizzazione», cioè dell’organizzazione politica. Un limite, certo, ma nella loro «orizzontalità» c’è anche molta profondità, è ciò che va ripreso e tesaurizzato politicamente. I movimenti esplodono, hanno una loro esemplarità, però non tengono in eterno: cosa c’è dopo e cosa hanno sedimentato? Proprio questo consolidamento del comune concreto e di soggetti del comune che permettono di far fronte alla sofferenza, alla solitudine, all’isolamento, all’insopportabilità delle aspettative decrescenti.

Tra Ucraina, Siria e Iraq la guerra torna al centro della scena, insieme all’ennesima aggressione militare di Israele. La guerra, nelle sue forme parzialmente nuove, ridiventa così per il capitale un modello per affrontare la crisi globale?

Il papa ha detto che è iniziata la terza guerra mondiale. Indubbiamente c’è una volontà di destabilizzazione da parte dei poteri forti. È anche la conseguenza di un’economia finanziarizzata, che riduce per esempio il volume del commercio mondiale, creando istanze neo-protezionistiche e contribuendo a esacerbare molteplici tensioni esplosive. C’è un precedente storico: i vent’anni che hanno preceduto la prima guerra mondiale. Dopo la crisi degli anni Novanta dell’Ottocento, le tensioni hanno portato le economie mondiali allo scoppio della guerra come sbocco. Sono solo esempi, che però non vanno sottovalutati.

La versione integrale dell’intervista è disponibile sul sito di Commonware (www.commonware.org).