Un blackout totale ha reso il Paese, e soprattutto città e metropoli, luoghi incerti e spettrali dove regna la violenza e la sopraffazione. Per cercare di sopravvivere ci si deve volgere agli spazi naturali, a boschi e foreste dove, seppur tra gravi rischi, appare ancora possibile immaginare un futuro. È quello che pensa il protagonista di Fili d’ombra (Marsilio, traduzione di Francesco Bruno, pp. 284, euro 18) che incontriamo mentre cerca di raggiungere il capanno di caccia della propria famiglia nel pieno di una vasta foresta canadese. Una traiettoria solitaria e prudente nella quale comparirà per caso una sorta di «ragazzo selvaggio», il piccolo Olio, destinato a cambiare la storia che ci viene raccontata ma anche, e soprattutto, la vita del protagonista.

Terzo romanzo dello scrittore del Québec Christian Guay-Poliquin – dopo Le fil des kilomètres (2013) e Il peso della neve (Marsilio, 2019) -, classe 1982, considerato una delle voci più interessanti della narrativa franco-canadese, Fili d’ombra unisce il fascino sinistro del racconto postapocalittico con una sontuosa messa in scena dell’ambiente naturale, quasi a rendere il fitto del bosco una ammiccante allegoria dell’oscurità dell’animo umano. L’autore sarà oggi a Firenze per Testo (ore 12 Sala Ginzburg) dove presenterà il suo romanzo in dialogo con Ginevra Lamberti.

La foresta, le sue voci, i suoi colori, le sue infinite trasformazioni sono i grandi protagonisti del romanzo: come ha reso l’anima di un elemento naturale attraverso la storia?
Da millenni il bosco è il luogo preferito di storie e leggende. È il luogo mitico per eccellenza, il luogo dove avvengono le apparizioni e le sparizioni. Sono sempre stato affascinato dal fatto che la morte e la vita vi siano indissolubilmente legate; gli alberi crescono su altri che marciscono; gli animali si nutrono delle carcasse finché rimangono solo le ossa; il ciclo delle cose è tangibile, reale e inevitabile. È un insieme che si muove, vive, cambia: è il ventre del mondo. E se ho scelto di ambientarvi il romanzo è perché si tratta di uno spazio allo stesso tempo ostile e protettivo. E soprattutto il bosco ci ricorda che dobbiamo prima perderci se vogliamo imparare a ritrovare la strada. Come ci insegnava Dante diversi secoli fa: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita…».

Un blackout generale ha costretto gli individui a cercare di sopravvivere lontano dalle metropoli, rese pericolose e inservibili. Nello scenario in cui si muovono i protagonisti della storia sembra esserci un’eco della condizione in cui già oggi si vive nelle città e della crisi climatica che si annuncia…
In questo romanzo, come nei due precedenti, l’intera società è paralizzata da una diffusa interruzione della corrente elettrica. Ma se questo contesto mi permette di destreggiarmi con i codici della narrativa postapocalittica, lo utilizzo soprattutto per creare una sorta di «fine del mondo che non è davvero tale». Giocando un po’ con le parole, posso dire che proprio il blackout mi consente infatti di mettere in piena luce ciò che in condizioni normali passerebbe del tutto inosservato sia nelle nostre relazioni con gli altri che nei confronti delle istituzioni. Può apparire strano che la mancanza di elettricità finisca per influenzare anche la vita nella foresta, ma visto che in molti vi trovano rifugio per sfuggire agli sconvolgimenti esterni, il bosco del romanzo finisce per essere particolarmente popolato, fino a formare un nuovo spazio sociale le cui regole non sono state completamente definite. Naturalmente, tra questo universo immaginario e lo stato attuale del mondo, gli echi sono numerosi, ma per contrasti. La fine della benzina e l’obsolescenza della tecnologia, per esempio, evocano l’importanza dei legami comunitari e dei saperi ancestrali. Ma questo ritorno indietro nel tempo non avviene ovviamente senza intoppi…

Christian Guay-Poliquin

Prima di incontrare Olio, il protagonista impaurito sembra voler evitare i contatti con gli altri individui: attraverso quel bambino si riconcilierà con la propria capacità di fidarsi e amare, forse con la sua stessa umanità?
In effetti, prima dell’incontro con il giovane Olio, lui cammina nel bosco evitando gli incontri, un po’ come fa un asino burbero che avanza senza mai guardare al suo fianco o chi gli passa vicino. Ma l’apparizione del bambino sconvolge ogni cosa. A differenza del protagonista, un meccanico che vuole raggiungere i suoi parenti che si sono rifugiati nel capanno di caccia di famiglia, il ragazzo è curioso, giocoso e non può impedirsi di avvicinarsi alle persone. Inoltre, Olio è furbo, bugiardo e ladro, non ha problemi ad approfittare delle situazioni. Tutto ciò sconvolge il protagonista, lo costringe a reagire, a posizionarsi, anche a lasciarsi andare. In altre parole, la presenza del bambino fa si che si riveli a se stesso, visto che d’ora in poi non camminerà più da solo nella foresta. E quando i due si uniscono a coloro che vivono nel capanno, il comportamento imprevedibile di Olio sconvolge il fragile equilibrio della famiglia, costringendo il protagonista a guardare diversamente ai propri parenti che gli appaiono chiusi in se stessi come mai prima. Insomma, ciò che Olio apporta di più prezioso al personaggio principale, è il profondo desiderio di un futuro dalle possibilità luminoso e aperto.

Si ha l’impressione che nell’esperienza dei protagonisti il confronto con gli sconosciuti possa riservare sorprese peggiori di quelle che derivano dall’ambiente naturale, per quanto selvaggio e popolato da orsi e lupi. Una metafora della condizione umana in questi anni di crisi e sospetto reciproco?
È una strana costante delle narrazioni postapocalittiche l’evidenziare come le possibili minacce non provengano tanto dalla «fine del mondo» che si sta realizzando, quanto piuttosto dalle altre comunità che cercano a loro volta di sopravvivere. Sebbene questa dimensione attraversi il romanzo, i membri della famiglia del protagonista non sono tutti della stessa opinione riguardo a come si debba interagire con gli estranei. E questo è un dei nodi centrali della storia. Così, alle tensioni che si creano con gli altri gruppi che vivono nella foresta, si aggiungono quelle che nascono all’interno della famiglia stessa. L’idea non era tanto quella di rappresentare un mondo in cui, come pensava Hobbes, «l’uomo è un lupo per l’uomo»), ma piuttosto di delineare una realtà costruita sui rapporti umani, dove fiducia, reciprocità e generosità, al di là degli inevitabili conflitti, sono necessarie per non vivere soltanto nella paura degli altri e del futuro. Va da sé che Olio insiste perché la famiglia del protagonista si addolcisca nei confronti delle persone che vivono nelle vicinanze.

Il tema di una «nuova vita» nella selva ha una lunga storia letteraria alle spalle – un arco temporale e narrativo che solo in Nordamerica va dal «Walden, ovvero vita nei boschi» di Henry David Thoreau (1854) al romanzo «Into the Forest» di Jean Hegland (1996). Lei frequenta abitualmente boschi e montagne, ma come descriverebbe il suo approccio intellettuale all’argomento?
Innanzitutto, come molti nordamericani, la foresta fa davvero parte della mia vita quotidiana. Vivo nel profondo dei boschi, lì faccio legna per riscaldarmi, caccio, cammino. Per me la foresta è l’epicentro della vita. è il punto di partenza e di arrivo dell’esistenza. È attraverso di essa che nasce il mio rapporto con la realtà, con il lavoro manuale, con il tempo che scorre, con il ritmo delle stagioni: ruinisce, attraverso un mistero originale, il cuore pulsante dell’essere. Inoltre, nel 2014, ho attraversato una parte degli Appalachi a piedi. E questo mese di cammino fu un momento rivelatore di una grande semplicità, durante il quale tempo, spazio, corpo e fauna si accordavano in modo naturale. Così, mi sono immerso negli appunti e nei ricordi di viaggio tratti da quell’esperienza quando ho iniziato a scrivere Fili d’ombra. Del resto, come scrivo nel paragrafo di apertura del romanzo, la foresta possiede un magnetismo mistico che ha davvero una grande presa, credo, su tutti noi: «La foresta affascina quanto spaventa. Sotto le sue fronde gli incontri sono rari e decisivi. Il tempo è la sua forza vitale. Il suo disordine ammalia, le sue ombre si confondono, i suoi sussurri esplodono da ogni parte. È l’altro lato di ciò che pensa. È l’istinto, il gesto, il brivido. Tutte le anime sognano di perdervisi. Ma nessun essere esce indenne dal suo abbraccio. È la soluzione più semplice, la più totale, la più opaca ai calcoli dei cuori inquieti».