Nel crocevia del «Mediterraneo nero» la tragedia dei corpi annegati, «bloccati» e silenziati in Libia, è una pagina oscura dei governi italiani (ed europei) di destra e sinistra. «The Black Mediterranean» è un concetto euristico che sta prendendo piede tra gli studiosi e rappresenta, in breve, lo sfondo su cui si costituisce la diaspora africana dei nostri giorni. Sono le storie di giovani (e meno giovani) migranti che attraversano le acque alla ricerca della libertà e di un po’ di fortuna. Alcune sono a lieto fine e foriere di incontri, e conoscenze che danno luogo a forme transnazionali di creatività culturale irriducibili. Accade pure che i forestieri riportino per le strade delle città i canti popolari e che un ragazzino nigeriano scopra e si innamori di Rosa Balistreri. Si chiama Chris Obehi, ha ventun anni (in Italia da cinque) e si è fatto conoscere suonando la chitarra per le strade di Palermo, cantando il brano in dialetto siciliano, Cu Ti Lu Dissi, della cantora licatese. Christopher Goddey (il suo vero nome), da allora apre spesso i suoi concerti con questo brano che ha inserito anche nel suo disco di debutto, Obehi, (800A Records).

DOPO ESSERE sfuggito alle persecuzioni di Boko Haram è passato per i lager libici, quando era ancora minorenne. Nato in uno dei maggiori distretti petroliferi della Nigeria, a Warri, un lotto della Shell, la multinazionale che incassa i proventi del petrolio, Obehi ha lo sguardo rivolto a Mama Africa, su cui il fardello della (neo)colonizzazione pesa come un macigno, e incita al riscatto. Del viaggio sul barcone ricorda il pianto dei bambini. «Non siamo pesci è una canzone sui diritti umani. L’ho scritta pensando a un bambino che stava morendo di freddo. Ma ha un intento universale». Oggi Chris Obehi vive e studia (al Conservatorio) a Palermo oltre a portare la sua musica in giro per la Sicilia e l’Italia, prima del Covid-19.

LE OTTO CANZONI del disco hanno un carattere personale, ispirate come sono a fatti realmente accaduti, forti qualità (poli)ritmiche che fanno coesistere l’afrobeat e Rosa Balistreri con arrangiamenti orecchiabili, idiomi autoctoni, italiano e inglese.
C’è anche Goodness dalla Nigeria, nella One Blood Family, l’unica rapper in un collettivo di maschi, formatosi in uno Sprar di Collegno. Uno dei rapper, Seedy, è di Serekunda, la più grande città del Gambia, anche lui in Italia da cinque anni. Racconta di essere venuto qui perché in Gambia «se non hai i soldi è complicato studiare, realizzare sogni e progetti. L’Italia è come una strada, devi provare».
Matteo Marini, tra i produttori della band e musicista elettronico, chiarisce la genesi del progetto dietro OBF: «Il collettivo è nato da un laboratorio ricreativo che io e il mio socio della Sweet Life Society, Gabriele, abbiamo cominciato a portare avanti come volontari nel centro di accoglienza. Ma non tutti gli ospiti erano motivati per i più svariati motivi e sono rimasti quelli che erano veramente interessati». E spiega perché ci hanno creduto così tanto: «Abbiamo intravisto delle potenzialità in questi ragazzi, hanno un talento vulcanico che però va canalizzato. Perciò abbiamo tirato dentro anche Manuele e Simone (Rhabdomantic Orchestra). Loro hanno uno studio di registrazione a Torino e conoscono molto bene l’afrobeat, abbiamo pensato che potesse essere un buon collante. Così, abbiamo cominciato a proporre concerti e abbiamo partecipato a un bando Siae per produrre il disco».

IL PRIMO singolo, Life Can Change, uscito in digitale a marzo, è un soffio di speranza ma anche un grido di dolore che parla il linguaggio del rap e la sintassi afrobeat. «Non ha proprio la forma canzone ma allo stesso tempo è molto canzone rispetto ad altri pezzi più elettronici del disco. Ci fa riflettere sul fatto che la vita può cambiare da un momento all’altro per una malattia, un infortunio. Il brano fa riferimento alla condizione dei migranti, ma forse ora possiamo capirla tutti». Seedy si rattrista quando gli si domanda della sua precedente vita in Gambia, preferisce non soffermarsi su ricordi che bruciano sotto la pelle. «Sono argomenti che vogliono lasciarsi alle spalle» sentenzia, Matteo. Descrive però il razzismo che sono costretti a subire a parole semplici «parlano, parlano, parlano, ma non sanno niente di me. Io non do ascolto». Il proseguo era previsto per maggio, ma le registrazioni sono rinviate al post-pandemia.