A Mosca, al Simposio sull’eredità di Dziga Vertov (1992), le donne e gli «uomini con la macchina da presa», compreso Chris Marker, hanno quasi tutti una piccola handycam. Quando le Hi8 saranno sostituite dalle videocamere digitali Marker designerà il mini-DV, dalle iniziali (Digital Video), come «un omaggio involontario a Dziga Vertov»; a quelle utopie e a quelle lontane, piccole cineprese. Fin dai testi degli anni ’40 e ’50 Marker mostra un profondo interesse per un futuro in cui filmare e scrivere sarebbero state operazioni ugualmente praticabili, per le innovazioni tecnologiche, dall’ampliamento della superficie di proiezione al tentativo di visioni in rilievo, verso un cinema delle idee. In questo sguardo fra passato e futuro sta uno degli aspetti di quel che possiamo chiamare «eredità» del cinema di Marker nella ricerca audiovisiva odierna.
A Mosca è presente anche Gianni Toti: come l’amico Marker, è un écrivain multimédia; compagno di ideali, grande viaggiatore. E se per l’opera del poetronico Toti si tratta di condivisione di eventi storici, di ideali e bagaglio culturale, per i più giovani si tratta di vera e propria ispirazione. L’opera di Marker presenta un intreccio continuo fra tecnologie e linguaggi: la sua è un’opera che esplora e include molte scritture e media, così come i linguaggi dei media più attuali continueranno a includere (nelle sue opere video, nelle «installazioni-presentazioni», nel CD-Rom) la scrittura.

LA JETÉE

La fotografia, innanzitutto. La Jetée, 1962, film, è diventato un vero e proprio «classico» della videoarte: omaggi, dediche, citazioni. Un’opera composta di fotografie (se si esclude la nota immagine centrale, in movimento), in bianco e nero, diventa un testo-chiave per quanti usano nuovissime tecnologie. Non solo per una narrazione vertiginosa e perturbante ma per la dialettica fra immagine fissa e in movimento, la frammentarietà e l’inaffidabilità del ricordo, un discorso sullo sguardo e sulla memoria. E per l’insieme di tracce, generi e testi al lavoro. Ne ritroviamo segni espliciti nell’opera di Thierry Kuntzel, videoartista francese, che nel progetto La Rejetée (1974) ricostruisce la memoria di quelle immagini, con un commento supplementare che abbandona il classico linguaggio analitico e critico per lavorare sulle associazioni di parole e di immagini.

Nel 1976 il videoartista Robert Cahen rende omaggio a La Jetée nel suo corto in 16 mm Karine: decine di fotografie in bianco e nero di una bambina dalla nascita fino a sei anni. Perdita, crescita, ineluttabile passaggio del tempo. A metà del film fotografico Karine muove gli occhi e ci guarda. Cinema nel cuore della fotografia ed esplicito omaggio a La Jetée. «Credo che si possano trovare dei granelli de La Jetée – ha detto la videoartista Irit Batrsy – in quasi ogni video e film sperimentale.»

Sophie Calle dedica a La Jetée il video Double Blind (con Greg Shepard, 1992, poi distribuito in pellicola col titolo No Sex Last Night): Calle, che si muove fra letteratura, fotografia, performance spesso intrecciate con la vita, usa la piccola videocamera, durante un viaggio in coppia, per un diario intimo. Anche il suo compagno ha una videocamera, e ognuno confida al dispositivo elettronico le proprie impressioni, come su un taccuino d’appunti. Montate assieme formano un doppio sguardo o, come dice il titolo, una doppia cecità. Ma La Jetée ha operato a livello profondo e diffuso anche su altri piani, nel video di ricerca: per le tematiche del controllo e della sorveglianza (si pensi a un classico della videoarte come Der Riese di Michael Klier, 1983) , e per l’intreccio fra politica e poesia, narrazione e saggio, in un’opera che sfugge ai generi e alle durate codificate. Fino al recente Hotaru, del giovane William Laboury, 2015, videofiction sperimentale fantascientifica.

Del resto, l’intera opera di Marker intreccia e fonde il documentario con la soggettività, la lettera con il reportage, la poesia con la saggistica, il «foto-romanzo» con la visionarietà politica, la narrazione con il disvelamento dei meccanismi narrativi. E «gioca» con le immagini, vignette, animazioni, linguaggi da un amplissimo corpus mediatico; e con le possibilità manipolatorie dell’elettronica.ù

Alcuni fra gli esiti più felici risiedono nella video-saggistica: pensiamo a Lettre de Sibérie (1958) che André Bazin definì un «saggio documentato dal cinema». Riflessione sul rapporto fra testo e immagine, forma soggettiva della lettera, documentario intrecciato col fumetto, con l’animazione, reportage «fintoscientifico» (André Labarthe), è un film che, con La Jetée e Sans soleil (1982), forma una sorta di trilogia ispiratrice. In These are not my images, 2000, di Irit Batsry, è esplicito il riferimento a Marker, sia per Sans soleil che per La Jetée: si svolge in un futuro inquietante, in cui le immagini saranno centralizzate e l’autore non avrà più dominio sulle proprie riprese. È anche un viaggio di rilettura delle immagini e il tentativo di assorbirne alcune nella memoria, come atto di resistenza al potere centralizzato e all’oblìo.

UNA IMMAGINE

Marker scava spesso, nei suoi film, in un’immagine. La rallenta. La ferma. La ingrandisce. Isola un dettaglio, un volto, un’espressione (è d’obbligo qui citare Level Five, 1996). La sua opera è percorsa da uno scavo quasi archeologico nel calco che la realtà ha lasciato sulla pellicola, alla ricerca di indizi, di storie nascoste nelle storie. Un’attitudine che ritroviamo nell’opera di Yervant Gianikian e di Angela Ricci Lucchi, che da sempre cercano vecchie immagini e le analizzano, tracciando ritratti anche politicamente illuminanti di un’epoca attraverso lo scavo nei comportamenti, nelle iconografie codificate. Altri autori, come gli statunitensi Paul Garrin, Shelly Silver, Paul Lloyd Sargent, il belga Stefaan Decostere, il francese Dominik Barbier, il catalano Antoni Muntadas, esplorano una videosaggistica di origine vertoviana e markeriana connotata dall’impegno e da una riflessione sul linguaggio. E certo meriterebbe un discorso approfondito, in tal senso, la relazione dell’opera di Harun Farocki con la video-saggistica di Marker.

Jem Cohen, film-maker indipendente newyorkese, presenta in modo profondo tracce markeriane: ispirato da Walter Benjamin, August Sander, Eugène Atget, Jem Cohen esplora da sempre il «documentario poetico» e lavora dagli anni ’80 sul tempo e la memoria, la mutazione del mondo, la città, con una peregrinazione anche fra i media. Il cinema può rendere le stratificazioni e compresenze di un tempo indivisibile e attestare le sacche di resistenza a un progetto planetario di azzeramento della storia.

Solo alcuni esempi, sguardi, tracce di una «eredità». Ma forse è improprio parlare di eredità, in quanto è stato lo stesso Marker ad andare avanti e oltre, incontro alle tecnologie delle generazioni a venire, in una pre-visione che esclude qualunque accezione postuma del «lascito» culturale e artistico.

Questo testo è la versione ridotta, modificata e aggiornata del testo di Sandra Lischi «Vidéo: le (chouette) héritage de Marker», pubblicato in André Habib e Viva Paci (a cura di), «Chris Marker et l’imprimerie du regard», L’Harmattan, Paris 2008