Un kolossal cinematografico: questa la definizione in apparenza superficiale che lo spettatore che non ha mai assistito alla Chovanšcina potrebbe lasciarsi scappare davanti alla grandiosa messinscena di Mario Martone per l’opera di Musorgskij. Invece quella prospettiva «russa» cangiante tra brume e fumi, un capolavoro di controllo e complessità da parte di PasqualeMari, è quello che ci permette di saltare, senza alcuna forzatura del racconto, dalla fine del ‘600 a quella del ‘900, perché quelle lotte e quelle crudeltà che servirono ad assestare il trono degli zar, sono tanto simili alla dissoluzione dell’Europa balcanica che abbiamo vissuto, quella guerra per bande e fazioni che ha insanguinato e straziato vite e territori della ex Jugoslavia, per fare solo un esempio. La coralità commovente di Musorgskij è la trama e il percorso drammaturgico, e quindi visivo, dello spettacolo. Una guerra dove nessuno ha più ragione (e ritegno e moralità) rispetto alle fazioni degli altri.

LA REGIA di Martone, con un grande gioco di squadra con i suoi collaboratori, mostra riti e miti, di contorni e di valori, di questa lotta senza quartiere e senza speranze, in cui è impossibile schierarsi. Il potere zarista, prossimo ad assestarsi con la razionalizzazione di Pietro il grande, è una sorta di carillon che ciclicamente percorre la scena, salvo mostrare anche davanti ai principini fratelli, la disinvoltura della sorella reggente. Gli strelzy della loro guardia, così come i Vecchi Credenti bellicosi nei loro valori vetusti contro scismatici e modernizzatori, sono vere bande armate in lotta tra loro, tutti contro tutti, sovrastando le passioni sentimentali e i più profondi valori umani. Che pure emergono e resistono, e vengono letteralmente alla luce, nelle possenti scene corali, le donne e le loro voci in primo piano, con lo straordinario lavoro del coro che canta, con grande maestria, ovviamente in russo.

LA DIREZIONE di Gergiev, lucida ed emozionante, gioca di concerto con le immagini che Margherita Palli ha creato, evocative, per il Cremlino, la chiesa, la piazza, i bassifondi di quella Mosca dell’anima, divisa e pugnace.

UNICA LUCE a venire in primo piano, l’eros crudele e smaccato di casa Chovanskij, dove le «danze persiane» elaborate da Daniela Schiavone scoprono la fatuità di una moderna casa di piacere (in cui è una delle prostitute a uccidere il principe). Da questa ricchezza di componenti nasce quella sensazione del «film», un kolossal di guerre politiche, morali e sentimentali, quasi una visione dal drone che all’inizio dello spettacolo sorvola Mosca. In grado di mostrarci l’impossibilità desolata e amara di un’unica ragione e di una universale giustizia, che Martone sancisce sul palcoscenico glorioso della Scala.