Va in scena in questi giorni al Teatro alla Scala di Milano Chovanšcina (repliche fino al 29 marzo), «dramma musicale nazionale» di Modest Musorgskij, che l’ha immaginato come la seconda parte di una trilogia epica sulla storia russa: il primo titolo è Boris Godunov, basato sul dramma di Puškin e dedicato alla cosiddetta epoca dei torbidi (1584-1613), il terzo, mai realizzato, sarebbe stato ancora ispirato da Puškin e avrebbe avuto come oggetto la rivolta di Pugacëv (1773-1774). Musorgskij vi lavora tra il 1872 e la morte, avvenuta nel 1881, portandone quasi a termine la stesura per canto e pianoforte (eccetto i finali del II e del V Atto), ma lasciandone pressoché irrealizzata l’orchestrazione (eccetto la Canzone di Marfa e il Coro degli Strel’cy nel III Atto). Nel 1886 l’opera, completata tre anni prima da Nikolaj Rimskij-Korsakov, che però ha scorciato e rielaborato pesantemente la partitura originale, viene eseguita da una compagnia di dilettanti a San Pietroburgo. Nel 1911, per interessamento di Fëdor Šaljapin, viene ripresa al Teatro Mariinskij. Due anni dopo Sergej Djagilev ne produce a Parigi una nuova versione, affidandone l’orchestrazione a Maurice Ravel e Igor’ Stravinskij, che compone anche un coro per il finale del V Atto (l’unico pezzo sopravvissuto di questa versione).

NEL 1931 viene pubblicato il manoscritto originale di Musorgskij e su questa edizione Dmitrij Šostakovic tra il 1958 e il 1959 completa l’orchestrazione dell’opera, che viene rappresentata per la prima volta nel 1960 ancora a San Pietroburgo (allora Leningrado): è questa la versione che al presente viene usata per la maggior parte delle produzioni, compresa quella scaligera di cui stiamo scrivendo, eccezion fatta per il coro finale, al quale si preferisce in genere quello composto da Stravinskij.
Chovanšcina, su libretto dello stesso Musorgskij, è un’opera composta per un pubblico di aristocratici, ricca di riferimenti a fatti storici non necessariamente noti al pubblico contemporaneo. Basti ricordare che al centro della storia ci sono le congiure che tra il 1682 e il 1689 – sullo sfondo il raskol’, lo scisma della Chiesa ortodossa – portarono alla sconfitta dei «vecchi credenti» e all’ascesa al trono di Pietro il Grande, promotore della moderna occidentalizzazione della Russia. Chovanšcina, però, al netto dei dettagli storici, è un potentissimo affresco della cultura russa, intrisa di religione e superstizione, ideali e incessanti lotte per il potere, divorata da un pessimismo che non lascia scampo: alla fine nessuno trionfa, se non transitoriamente, e chi dice la verità (Marfa) è sistematicamente fatto oggetto di repressione, senza distinzione di appartenenza politico-religiosa o di relazione personale. La drammaturgia per quadri giustapposti nega all’azione uno sviluppo lineare e consequenziale e soprattutto annulla ogni possibilità di catarsi finale.

PER L’OCCASIONE torna sul podio scaligero uno dei massimi interpreti del repertorio operistico russo, Valery Gergiev, che nel 1998 ha diretto l’ultima edizione milanese di Chovanšcina. La sua lettura dell’opera, accolta da una vera ovazione del pubblico, è di una intensità lacerante e allo stesso tempo di una precisione che non lascia sfuggire alcun dettaglio. Tutto, l’orchestra poderosa, il coro onnipresente (eccezionale il lavoro di Bruno Casoni), i solisti, vi trova la propria collocazione e il giusto peso. I personaggi, poco riconducibili agli archetipi della tradizione operistica, sono affidati a un cast di rara omogeneità. La prevalenza delle voci maschili gravi (il Principe Ivan di Mikhail Petrenko, il Principe Golicyn di Evgeny Akimov, lo Šaklovityj di Alexey Markov, il Dosifej di Stanislav Trofimov) sottolinea la prevalenza degli scontri politici e ideologici su quelli sentimentali.

IL TENORE (l’Andrej Chovanskij di Sergey Skorokhodov) è l’unico coinvolto in una relazione amorosa peraltro marginale; i due personaggi femminili minori (la Susanna di Irina Vashchenko e la Emma di Evgenia Muraveva) non sono che figure funzionali a far risaltare, per contrasto, la statura della tormentata protagonista, Marfa (la strabiliante Ekaterina Semenchuk), incapace di distinguere tra amore e fede in un cupo e opprimente misticismo.