Un monumento all’emigrazione russa, alla parola poetica senza più la sua terra: Vladislav Chodasevic lo immagina già nel 1928 in una poesia di grande intensità e lungimiranza, che chiede per sé una statua bifronte all’incrocio remoto di due strade, dove tempo, sabbia e vento testimoniano la lacerazione e la desolazione del distacco. Addomesticando e sminuendo il motivo dell’exegi monumentum, con il quale si collega esplicitamente all’amato settecentista Deržavin e soprattutto al modello dei modelli, Puškin, Chodasevic ha chiarissima consapevolezza del suo ruolo: «resto però un saldo anello», collante del processo letterario in disfacimento tra la passata età dell’oro e un ben vago futuro postsovietico.

Prediletto il giambico
Il talento esclusivo nel restare fuori dai gruppi e a cavallo delle epoche, indifferente alle tempeste dell’estetica e della storia, è cifra distintiva anche della prima – a ottanta anni dalla morte – ampia e esaustiva edizione italiana della lirica di Chodasevic, pubblicata da Bompiani con il titolo Non è tempo di essere (traduzione e sapiente cura di Caterina Graziadei, testo originale russo fronte, pp. 402, e 20,00). E che anelli e nessi – vividi per ibridazione ontologica e non per scorie intertestuali – siano sottesi ovunque ce lo conferma la poesia La scimmia, al mezzo della quale la canonica caudata assistente del suonatore d’organetto tutt’a un tratto, con annichilente saggezza e nobiltà, tende la mano al poeta, infondendogli nell’anima «le più dolci leggende di un tempo remoto».

È con queste premesse che si può spiegare l’assoluta tangenza di Chodasevic tanto alla poetica del simbolismo, nel cui ambiente si forma, che a quella delle avanguardie, delle quali ignora programmaticamente ogni procedimento, come pure l’attualizzazione, con illimitato ossequio, dei moduli puskiniani, di cui assume l’asciuttezza, l’essenzialità, uno scarno e nitido rigore, l’azzeramento quasi totale del metaforismo, a vantaggio della più sobria e non risolutiva similitudine, la predilezione pressoché esclusiva per il ritmo giambico, una ancora più estrema disattivazione del significante. Di proprio, invece, la disillusione, il sarcasmo, e un’algida «vena di inferi», come vuole il più ricorrente di una selva di ossimori.
Trapela e non, in un altrettanto parco corpus poetico di poco più di duecento poesie – per metà rappresentato nell’edizione italiana – la storia dell’Io, occultato, dissimulato, ma ingombrante, uno spirito superbo, egocentrico, esaltato e visionario fino all’isteria, eppure fragile, suscettibile, dolentemente instabile.

Il fascino del Chodasevic di inizio secolo non tramonterà mai: dandy umorale e sprezzante, seduttore implacabile ma anche dipendente dalle sue donne, come la seconda moglie che lo accudisce nei suoi infiniti malanni durante i terribili anni di stenti della guerra civile, o la terza, la giovane poetessa Nina Berberova, con la quale si risolve a emigrare, e che gli sarà accanto prima a Berlino e poi a Parigi, per lasciarlo quando la sua cupezza e incapacità di adattarsi alla nuova vita saranno arrivate a un punto di non ritorno, sopravvivendogli di oltre cinquant’anni e conquistando, pur se tardivamente, una fama editoriale di gran lunga superiore a quella di Chodasevic, da tutti riconosciuto e da tutti ignorato come artefice per eccellenza della poesia in una lingua senza lettori, di una cultura che non esiste più.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, si è precisata la funzione di raccordo, di memoria collettiva del suo linguaggio interstiziale, che raddensa spazi e tempi rapiti e negati dalla storia, incarna lo spaesamento, l’assenza di orizzonti della letteratura russa di allora, in emigrazione e non, che il poeta, estraneo per principio al suo tempo, del quale ignora con risolutezza nei versi ogni contingenza, sa paradossalmente interpretare con esclusivo nitore.

L’ordito semplice e fluido, a tratti prosastico, funziona e coinvolge per grumi, aggregazioni di motivi ricorrenti, tenebrose invarianti, che tendono a spiazzare pur in assenza di straniamento, concentrandosi soprattutto nell’ultima strofa, spesso in marcato contrappunto. In primo luogo i vetri e le finestre, attraverso i quali Chodasevic osserva un mondo acquario, con distacco e pungente ironia, oppure compiaciuto voyeurismo, ma ben consapevole che la rifrazione è infinita, diventa gioco di specchi, di pozze riflettenti, negativi sovrimpressi, e la vittima ultima della disgregazione delle forme altri non è che lui.

C’è poi un sentimento vistoso ed esasperato della verticalità, un universo fatto a strati, alcuni occupati per intero da braccia e gambe disarticolate, da angeli flagellati e spiumacciati, strati tra i quali non c’è più comunicazione, dove i suoni giungono come a un palombaro dalla tolda della nave, la testa è tra le stelle e i piedi agli inferi. Miglior riassunto ne è, ovviamente, il crollo: «beato chi cade a testa in giù:/ almeno per un istante – un altro è il mondo».

L’universo di Chodasevic è dissestato per intero dagli ossimori. Che non sono un tropo, ma l’impianto delle liriche. Alcuni in simmetrica ostentazione, quasi relitti concretati della mistica simbolista, come l’automobile d’apocalissi che si sdoppia, nera e notturna dalle ali bianche, poi diurna con ali nere; altri pervasivi e corrosivi, come il motivo del sole che impedisce di vedere le stelle, più volte ribadito e variato, sia in sprofondo ascensionale verso una notte autentica, non solo grigiastra, sia in sguardo che distingue nel giorno una notte preservata dal disco irritato della luna. Sembrerebbe di cogliere un Leitmotiv di qualche coerenza metafisica nel costante sentimento di un’anima dotata di vita propria e come tale descritta, ma già il rientro nel corpo costa le pene di un «serpente costretto a inguainare/ di nuovo la pelle appena scrollata», poi anche la psicanodia è assoggettata al gioco simmetrico degli ossimori, e nella ustionante lapidarietà della breve poesia Il turacciolo è l’anima a corrodere il corpo.

L’Io come fango schizzato
Nel raffinato e illuminante saggio introduttivo, la curatrice ricorda come sia soprattutto l’ultima raccolta, La notte europea, pubblicata già in Francia nel 1927, che «comprime e riduce la tensione metafisica nei logori stampi di una trivialità urbana, banale». E se proprio il Chodasevic dell’emigrazione è di norma prediletto dalla critica, il volume italiano si ripropone di restituire pari dignità alla sua produzione russa, soprattutto all’intensa e lancinante raccolta pietrogradese del 1922 La pesante lira. Il distinguo principale è tra una fase iniziale di «stasi centripeta», tutta convogliata sull’Io lirico, e il passaggio, all’estero, alla visione sempre più cupa, acida, disgregata e dissociata dell’Europa del primo dopoguerra, dove l’Io si dissolve («mi sparpaglierò/ come fango schizzato da una ruota,/ per le sfere estranee dell’essere»), perso tra borghesucci meschini e laidi, squallidi sobborghi, sguaiate luci del varietà, stelle divenute etère.

La corposa e tangibile emergenza del mondo interiore e il senso del tempo e della lingua in proiezione astorica fanno di Chodasevic un poeta di inconfondibile personalità e, allo stesso tempo, di alta traducibilità: Caterina Graziadei ne approfitta opportunamente per darci una versione insieme letterale, sciolta e fluida, nella quale solo la sovrabbondanza di termini stilisticamente elevati contrasta forse un po’ con il sapore arido, spoglio, secco, graffiante che è l’essenza di Chodasevic.