Chocò è una guerriera, sguardo diritto e gambe lunghe con cui attraversa ogni giorno un mondo di violenza, miseria, e machismo. Ha due figli, un bambino e una bambina, un marito ubriacone che la picchia e le ruba i soldi per bere e giocare, anche quelli messi da parte per la scuola dei ragazzini. Il nome a Chocò arriva dalla regione in cui vive, di beffarda bellezza, insieme agli altri afrocolombiani maltrattati, emarginati dal razzismo, in case che sono baracche, senza servizi né scuole, massacrati dai paramilitari e dai militari governativi. In Colombia ci dicono le statistiche rappresentano oltre il 21% della popolazione, la maggioranza della povertà. Sono arrivati schiavi e ancora oggi continuano a essere visti come cittadini di bassa categoria. Jhonny Hendrix Hinestroza, che è nato a Quibdó, il capoluogo del distretto dove ha girato (dedicando il film ai suoi genitori perché gli hanno fatto capire che «essere neri è un miracolo») li racconta nel suo film d’esordio, Chocò appunto – presentato alla Berlinale e al Milano film festival, ora in sala grazie alla distribuzione indipendente Cineclub Internazionale Distribuzione – che come dice il titolo poggia l’intera struttura narrativa sulla protagonista. Perché il punto di vista (esasperato) sul mondo in questo musical di marimba e Vallenato, è quello delle donne, che si assumono la responsabilità della famiglia, dei figli, come Chocò, troppo spesso picchiate dai loro uomini ma anche, a loro volta, rassegnate a questa cultura maschile/macha, senza gesti di complicità – non siamo nei villaggi africani.

L’uomo nella storia, compreso il marito della protagonista (Esteban Copete), è sfocato, tutti uguali o quasi, al bar o a giocare a dadi, violenti, con l’ossessione del sesso e senza rispetto per le donne – neri e bianchi.

Sul camion che le porta in miniera le donne afrocolombiane cantano canzoni di rivolta contro i padroni bianchi che le avvelenano per una manciata di soldi con cui non riescono neppure a comprare una torta di compleanno ai loro figli. Contro Dio che ai bianchi ha dato la penna e ai neri il bastone, pure se nella capanna in riva al fiume dove vive di Chocò ci sono sempre le candele accese davanti all’immagine dei santi. Licenziata dalla miniera, la ragazza inizia a lavorare per un tipo che invece di usare il mercurio, avvelenando l’ambiente e la gente usa metodi naturali per tirare su l’oro, ma come dice ci vogliono pazienza e fede…

Il film di Jhonny Hendrix Hinestroza ci parla di persone e di realtà che non sembrano avere accesso all’immaginario, e lo fa con una storia che, senza fermarsi al proprio soggetto dichiara una ricerca cinematografica in cui il confine di realtà e finzione si mescolano con controllo. Lo stile del regista punta alla realtà, alla vita di tutti i giorni, a un’esperienza sensibile dolorosa e cruda alla quale però in ogni sua immagine cerca una corrispondenza narrativa. Non è semplice filmare la miseria, sfuggendo alla retorica del sentimentalismo, o del giudizio. Hernandez conosce dall’interno quella realtà, ma la sua non è una immagine dimostrativa.

Al centro c’è la sua protagonista, un personaggio resistente, che inventa ogni giorno la sua rivolta. Lo fa da sola, ed è molto brava Karent Hinestroza, classe 1985, a fare una fisicità emozionale al suo personaggio. Ci sono ingenuità? Forse anzi certamente come capita nei primi film, con un finale forse troppo netto rispetto alla fluidità con cui Hernandez ci conduce nel flusso quotidiano. Cogliendone sì la tragicità ma anche i momenti di allegria, e di leggerezza, la musica di una vita che non può essere chiusa in una sola direzione.