Uomo silenzioso e austero. Mai un sorriso, un gesto amicale. Noi ragazzini, in odore di prima comunione, pensavamo che dovesse mostrarsi così un prete, come don Raffaele. Nel nuovo quartiere dell’Ina-casa si erano trasferite centinaia di famiglie con prole numerosa. Ci si sposava per fare figli, esistenze a senso unico. Fra le palazzine il centro sociale, il calzolaio, la drogheria coi generi alimentari, la pista dove giocare, la fermata della corriera, una chiesa piccola al centro dell’aggregato. Al centro anche della nostra fanciullezza: dopo la settimana sui banchi di scuola la domenica con le catechiste a impartirci la dottrina cristiana (peccati mortali, virtù teologali e cardinali, eccetera); le sere, nel maggio della madonna, in chiesa a servir messa. Senza saltarne una: don Raffaele era capace di mandare il sacrestano a casa per reclamarci. E con il prete che ci tirava, le mamme che ci spingevano, non si vedeva l’ora che passasse l’età da chierichetto. Assistendo il sacerdote nella cerimonia liturgica ci calavamo sul maglione un camiciotto bianco confezionato a misura di ragazzi. Ne ruotavano quattro cinque in ognuna e ai prescelti si richiedeva stretta osservanza di comportamenti. Era un atto sacrilego entrare in chiesa con in bocca la gingomma (chiamavamo così la gomma da masticare), se poi qualcuno non l’avesse sputata prima d’indossare la tunica avrebbe rasentato la scomunica perpetua. Ma più di uno, in fondo, ci sperava. Insomma, la predisposizione alle cose del signore non avveniva per mezzo della fede ma per costrizione. Ci spettavano quattro gradi di partecipazione alla messa: i novizi, in ruolo passivo ai lati dell’altare, a reggere i candelieri con la cera che colava sul dorso delle mani; l’addetto al campanello a calcolare i tempi della messa e annunciare, scampanellando, la fase culminante della consacrazione ed elevazione dell’ostia; poi un altro a coprire il sacerdote col paramento sacro; infine il turibolo agitato dal più grandicello, ossia il vaso d’argento appeso a tre catenelle da cui fuorusciva la nuvola aromatica d’incenso bruciato. Una sera don Raffaele ci assegnò il campanello: attenzione a usarlo nel momento giusto, raccomandò. E giunse il momento della consacrazione: noi inginocchiati sui gradini dell’altare, lui in piedi, di fianco, con l’ostensorio fra le mani per l’esposizione solenne dell’ostia, a lanciarci sguardi insistenti perché ci decidessimo a scampanellare. Niente, le ginocchia anchilosate ci avevano fatto cadere in trance. Finché una mano non ci scosse la spalla e, in automatico, un suono argentino inondò la navata senza più bloccarsi. La cerimonia, scaduta in farsa, ebbe il suo prezzo: sospesi a divinis dal servire messa e decaduti dalla funzione di chierichetto. Un prezzo che, tutto sommato, pagammo a cuor leggero.