Andarsene col sorriso sulle labbra non è prerogativa comune. Andarsene col sorriso sulle labbra e facendo sorridere il resto del mondo è caratteristica più unica che rara. Armando Anthony Corea detto Chick, come il batterista che fu compagno di Ella Fitzgerald, se n’è andato così, il 9 febbraio scorso, a settantanove anni, sconfitto da un tumore. Lasciando un messaggio che fa sorridere e, al contempo, inumidire gli occhi: «Voglio ringraziare tutti coloro che nel mio viaggio mi hanno aiutato a tener vivo il fuoco della musica, e la mia speranza è che quel fuoco resti acceso con i contributi di chi scrive, suona, o in qualsiasi modo crei arte. È qualcosa che si fa per se stessi, ma soprattutto per gli altri. Non è solo il fatto che il mondo ha bisogno di artisti: è anche e soprattutto il fatto che è molto divertente esserlo. Il mio intento è stato sempre quello di portare la gioia di creare qualcosa ovunque io abbia potuto farlo, e di averlo fatto fianco a fianco con artisti che ammiro. Questa è stata la ricchezza della mia vita».
Viene in mente la definizione che il gigantesco e sfortunato Albert Ayler diede della musica: «The healing force of the universe», la forza che guarisce nell’universo. E viene in mente, inevitabilmente, che a fronte di schiere di musicisti che della seriosità grigia e impettita hanno fatto uno scudo e un vanto, Chick Corea s’è sempre schierato, col suo tocco sontuoso e spesso virtuosistico, sempre pervaso da un’incontenibile gioia risanatrice dalla parte del buon vivere in rapporto con gli altri, con un sorriso di stupore che non mancava neppure ora che stava per compiere ottant’anni. Basti ricordare la meravigliosa performance in duo con un altro folletto dei tasti e del buonumore, Stefano Bollani, immortalata in un video e in disco (Orvieto, 2011), uno dei documenti preziosi di una carriera impetuosa, ricca, variegata.

VITALITÀ RITMICA
Portava nel nome e nel cuore l’Italia, Chick Corea: era nato a Chelsea, Massachusetts da un padre arrivato da Albi, provincia di Catanzaro, uno dei milioni di italiani del Sud che sapevano destreggiarsi bene su uno strumento a corde o a fiato (lui era trombettista), evidente ricordo di storie di bande di paese e di botteghe di barberia dove si imparavano i rudimenti dei suoni, e che, dall’altra parte dell’oceano, sarebbero diventati il jazz. Armando detto Chick a quattro anni sapeva già mettere le mani sui tasti bianchi e neri, a otto sulla batteria: forse dalle pelli e piatti assemblati aveva ricavato il suo pressante interesse per le divagazioni poliritmiche, per le accentazioni irregolari nel fraseggio, per le dinamiche che, a volte diventavano impetuose come rullate in crescendo, accostate, comunque, a un senso melodico «italiano» squisito, quasi lezioso, in certe fioriture e ricami che sapeva cavare dalla diteggiatura della mano destra. Più volte, nella sua carriera, e nei suoi titoli, Chick Corea ha fatto anche riferimento a un suo «spanish heart», cuore iberico. In realtà è sempre la medesima storia del jazz che, dalle sue origini, ha saputo innervare nel gran flusso della musica il cosiddetto «spanish tinge«, il «sapore spagnolo» che invece è il portato diretto della vitalità ritmica afroamericana dei Caraibi e dell’America Latina, quella che approdò con tanti emigrati musicisti prima a New Orleans, agli albori del Novecento, poi a New York. E che fu sposata anche da jazzisti bianchi di valore, come Stan Getz, che volle accanto Chick Corea in diverse fasi della sua carriera. Fu proprio con musicisti latinoamericani che Chick Corea iniziò la sua avventura, forte comunque di una notevole preparazione musicale anche classica, riemersa in diversi dischi di questi ultimissimi anni. A ventuno anni Corea è con Mongo Santamaria e Willie Bobo, poi con il gentile e iperlirico Blue Mitchell, trombettista che forse gli ricordava il fraseggio gentile e caldo al contempo ascoltato da suo padre. Nel ’66, a venticinque anni, Chick Corea è un musicista scafato e affidabile in ogni rivolo delle note afroamericane: comincia la sua avventura stilistica con Tones for Joan’s Bones, ne seguiranno, fino allo scorso anno, più o meno un centinaio, da affiancare alle decine e decine di collaborazioni. Nel ’68 piazza un colpo da maestro con Now He Sings, now He Sobs, uno dei dischi che segnalano, nel jazz, l’emergere di una nuova leva di pianisti, dopo le seminali avventure riconducibili a Tristano e a Bill Evans, che a loro volta avevano alle spalle Earl Hines e Art Tatum: uno di questi se lo troverà accanto in varie riprese nella vita, Keith Jarrett, con cui scatta quasi una sorta di involontaria rincorsa alla novità e alla bravura.

ARMONIE
Corea incide le Piano Improvisations in due dischi del ’71 che «riaprono» la questione dei flussi improvvisativi e della armonie aperte, Jarrett risponde l’anno dopo con Facing You. E tutti e due, per un certo periodo, si ritroveranno sullo stesso palco con sua «Jazzità» Miles Davis, nel burrascoso, sottovalutato e apicale periodo del jazz elettrico degli anni Settanta. Miles aveva coinvolto Corea in Filles de Kilimanjaro, 1968, gli aveva fatto da guida per le prime esplorazioni nelle tonalità calde, ambrate e sfuggenti del piano elettrico Fender, e qui Corea impara a maneggiare bene le tastiere che, negli anni successivi, saranno centrali nei suoi progetti elettrici. Uno su tutti, quello dei magnifici Return to Forever con Flora Purim e Airto Moreira che proponevano uno scintillante jazz elettrico dalle venature latin assai meno banale di quanto la critica un po’ blasé abbia voluto far intendere. Con Miles è una palestra decisiva: il Maestro parla poco, ma il flusso ipnotico di iterazione variata che scatena con la sua regia a segnali sui palchi e in studio coinvolge con efficacia Chick Corea, per un’avventura che durerà almeno quattro anni. Corea, però, da musicista completo qual è ha maturato anche altre avventure avantgarde con musicisti importanti: ad esempio quella, memorabile, documentata in Circle, con Barry Altschul, Dave Holland, Anthony Braxton, o quella, poco ricordata, a fianco del sassofonista free Marion Brown, su Afternoon of a Georgia Faun, 1970. Gli anni Ottanta portano Corea in ambito fusion con la Elektrik Band, musica assai tecnica e muscolare, ma non così consistente, alla prova dei fatti, esperienza comunque bilanciata dalla parallela fondazione della Akoustik Band.
Nei suoi ultimi decenni Corea ha suonato di tutto e con tutti, quasi posseduto da una gioia febbrile e da un istinto genuinamente ludico che lo portava a misurarsi, senza alcuna presunzione, in ogni ambito stilistico: suona in duo con il banjoista Bela Fleck e con la pianista giapponese Hiromi, riprende le collaborazioni con l’amico di una vita, il vibrafonista Gary Burton, torna al piano solo, rincontra John McLaughlin con la Five Peace Band, scrive il suo lavoro per quintetto jazz e orchestra da Camera, forma l’esplosivo e raffinato Trio con Brian Blade e Christian McBride. I suoi settantacinque anni li festeggia da par suo, con una cavalcata allegra di note per sei settimane consecutive al Blue Note di New York: arrivano, a turno, tutti gli amici di sempre. Un paio d’anni fa esce il superbo Antidote della Spanish Heart Band, novantanovesimo album della sua carriera, che gli frutta un ennesimo Grammy Award: stavolta la Spagna c’entra davvero, con il coinvolgimento di musicisti iberici stellari dal giro di Paco De Lucia, accostati a Cuba e ai Caraibi delle note. Si chiude un cerchio di vita gioiosa, forse il rovescio esatto di tanto maledettismo di maniera rintracciabile nelle biografie in jazz.