«Il nonno / mi consigliava: / Impara un mestiere // Ho imparato / a sedere a una scrivania / e a condensare // Niente licenziamenti / in questa / condenseria». Niente di più attuale oggi. Conviene, tutto sommato, starsene attaccati a una scrivania con computer e lasciarsi trascinare, se non nella scrittura poetica «condensata» (da Dichten, poetare, condensare, notava uno dei Modernisti), nel placebo del sapere nobilitante di internet, dove ogni cliccata conduce a un’altra in un rituale coattivo che potrebbe durare ore.
Lorine Niedecker, epigone dei dettami del Modernismo, come riciclati dai cosiddetti «Oggettivisti» (Louis Zukofsky, Carl Rakosi, George Oppen) e autrice dei versi succitati, è stata un’eccellente poetessa del Wisconsin, dove è nata nel 1903. Oggi, a cinquant’anni dalla morte, una scelta delle sue poesie vede finalmente la luce per la prima volta in italiano, grazie a un trio indefesso, composto da Luigi Ballerini, Gianluca Rizzo e Paul Vangelisti, i quali, dopo New York, Los Angeles e la California, proseguono nella loro mappatura poetica delle ultime voci emergenti negli Stati Uniti, con i due volumi di Nuova poesia americana Chicago e le praterie (Aragno, pp. LVIII-1032, e 60,00).
Sono in tutto ventisei i poeti midwestern qui rappresentati, inclusivi di quattro donne (Niedecker, Lynne McMahon, Robyn Schiff e Mary Jo Bang), tutti mai tradotti in Italia. Più numerosi sono invece gli Italo-Americani – Michael Anania, John Latte, Mark Tardi, Francesco Levato, Tony Trigilio –, che spiccano unitariamente per sperimentalismi, visioni di praterie e città da capogiro, cadenzate narrazioni contestuali, vaghe rimembranze del paese dei nonni, segnatura rimossa, quest’ultima, un po’ da parte di tutti loro come un ricordo conturbante delle prime misere migrazioni verso l’America dei nostri contadini, aleggianti olezzo di aglio e salami per le strade di New York e Chicago. Carl Sandburg ce ne dà testimonianza simpatetica, colma di vera pietas. Ma questa è storia del passato. L’Italo-Americano, che oggi ha penetrato le istituzioni accademiche a tutti i livelli, è diventato ormai un Americano perfettamente integrato e non camuffato, non, come si direbbe, hyphenated, uno Statunitense con il «trattino».
Nella loro bella Introduzione, Ballerini e Rizzo insistono sulla fisionomia corrotta e al contempo giustizialista (di una giustizia morale), che la furbesca Chicago (on the make), al pari di Detroit, ispira, essendo entrambe città industrializzate dalla nascita, e quindi sedi nel tempo sia di profitti illeciti, o mal appropriati, sia di rivendicazioni operaie. Famoso resta – tanto per menzionare un episodio – il Pullman Strike, lo sciopero dei trasporti del 1894 a Chicago, allora nodo strategico di tutta la rete ferroviaria americana. Richiamandosi a un libro di Nelson Algren, i curatori esprimono il loro omaggio alle vicende di una metropoli che oggi, pur con di mezzo Al Capone, avrebbe da insegnarci molto: «Questa era la città insonne scoperta da Dreiser e da Sherwood Anderson, la città in cui nacque James T. Farrell, quella dove andò a finire Richard Wright», narratori «la cui eredità spirituale è consanguinea a quella di Carl Sandburg, e anche affine a quella di Villon e dello Shakespeare di Re Lear, citati da Algren come esempi di trasparenza morale, cioè di un pensiero che sgorga dal desiderio di cancellare una volta per tutte quel tipo di giustizia che si traduce nella protezione legale di soprusi socialmente metabolizzati». Anche nel panorama sperimentalista e non narrativo, la poesia di o su Chicago recupererebbe, dunque, la funzione etica, civile, che dovrebbe essere propria della poesia, se vuole esistere davvero. Per il resto, tornando a Chicago, essa sembra poeticamente congelata nei versi incancellabili di Sandburg. Lo dimostra una parodica Chicago di Dave Etter: «Città dalle spalle curve, dal cuore vagabondo, dal mal di schiena. Città dei cartellini rossi, città delle entrate a gamba tesa. Città del sogno sempre rimandato». È un modo di coniugare, come in queste pagine spesso accade a vari livelli, topografia e memoria storica.
Al di là della mera Chicago, la Storia, passata o in corso, è disseminata un po’ dappertutto nei due volumi: da Ellis Island (Michael Anania) a Ralph Lauren (Robyn Schiff), dalle Primarie del 1924 (Garin Cycholl) alla Convention del 2000 (C. S. Giscombe) all’assassinio di Dallas (Tony Trigilio) a un’interpretazione degli anni settanta (Don Share) e al significato dei Novanta (Chuck Stebelton) e altro. L’omaggio ai maestri è continuo come pure continue sono le allusioni intertestuali rivolte al naturalista-pittore John James Audubon, e a Walt Whitman, Wallace Stevens, W. B. Yeats, Delmore Schwartz, Ezra Pound, W. C. Williams, Frank O’Hara.
Il paesaggio è raccontato un po’ da tutti nella freschezza dei territori ancora liberi o nel groviglio dei downtown o nella convenzionalità dei suburbi, con la mescolanza di ambiente naturale e paesaggio artificiale, urbanizzazione e onirismo e astrattismo, tratti talora uniti a visioni puramente mentali. Così, per esempio, in aperti termini metafisici, Paul Carroll descrive Fullerton Avenue a Chicago (Canzone dalla spiaggia di Fullerton): «Una nebbia / fitta quanto l’ignoranza / del cuore, e dietro una moltitudine di uccelli / attutiti. de Chirico / cammina sulla sabbia; / la giacca color cioccolato funebri tendaggi da camera ardente / camicia bianca aperta sul collo / come ali (…) / La sua anima resterà per sempre nello specchio / che si vede in questa foto di Brandt. / La mia ombra cammina su Dearborn Street / in mezzo a una gazzarra di uccelli». Dearborn (questo fu il primo nome di Chicago) Street è nel Loop, il vorticoso e peccaminoso centro storico degli affari della metropoli del Midwest: da Fullerton Ave. a Dearborn St. ne ha fatta di strada questo sognatore di de Chirico e di Bill Brandt.
Molte sono le trasposizioni dall’iconico al verbale, frequentate in particolare da Paul Carroll e John Latta. Non mancano dichiarazioni di estetica poetica in versi, come non manca la presenza di qualche Afro-americano (per esempio, l’ottimo C. S. Giscombe) e una visita di saluto agli Indiani delle praterie grazie alla divertente Against the Crow Indians, dal tema problematico che l’autore, Merrill Gilfillan, gestisce con argomentazioni ironicamente ribaltanti: «Voialtri che siete gli unici in Nord America a portare / i pompadour e avete la fissa dei gioielli / Voialtri che spendevate tutto in conchiglie / e mangiavate carne di cane. / Voialtri che odiavate i Sioux che invece piacevano a tutti…».
Il mito classico, pista battuta da Ralph Dickey, John Tipton e Devin Johnston, viene generalmente trasfigurato in termini nuovi e un linguaggio colloquiale. Per esempio, con lo scanzonato e bel Re Mida di Peter O’Leary, la cui fonte è data dalle Metamorfosi di Ovidio nella traduzione di (addirittura!) Arthur Golding: «Orfeo è stato il maestro di Mida, / senza di lui il mondo mediterraneo è perso. / Si è avventurato in Frigia e ha suonato modi nuovi per quel villano d’un re / il cui peccato ancora ammorba le rive del Pattolo. / Sopra le zolle dense gialle il fiume / scava ruscelli dorati per nuotare; / dove, un tempo, un putiferio latrava, mani ’nsanguinate che scavavano canzoni, / un oltraggio convulso regnava mentre le donne / corsero da Orfi e lo smembrarono…».
Insomma, i poeti qui rappresentati formano un vero e proprio canone, del quale non si aveva prova di esistenza, un nutrito capitolo di storia letteraria difficile da gestire, molto più di quanto possa risultare nelle mie righe. Quindi bisogna dire grazie ai curatori per aver disseppellito una materia vitale e culturalmente attiva sullo sfondo complesso degli Stati Uniti che andiamo conoscendo in questi anni, un paese in crisi, eppure sempre positivamente on the move e sempre, come Chicago, subdolamente on the make.