È un volume essenziale per questi tempi e provocatorio sin dal titolo quello di Chiara Saraceno: Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi (Feltrinelli , pp. 137, 15 euro).
Essenziale, perché indaga la recrudescenza delle condizioni di povertà nel vecchio c ontinente, con la precisione chirurgica dei dati e con la forza argomentatrice dell’analisi sociale, ben piantata nelle forme di vita contemporanee.

Provocatorio, perché si oppone con determinazione a quelle politiche pubbliche predominanti che riducono il Welfare a un Workfare oppressivo e vessatorio nei confronti di una società, italiana ed europea, sempre più attraversata dall’aumentata percezione individuale e collettiva di insicurezza economica e perciò impaurita.

Del resto Chiara Saraceno, già docente di sociologia della famiglia e tra i maggiori rappresentanti delle scienze sociali italiane, interroga da tempo le trasformazioni dei sistemi di welfare state, nei rapporti tra le generazioni, con particolare attenzione alla «questione femminile» e al ruolo della famiglia, in dialogo e confronto con i migliori studiosi internazionali, riuscendo a coniugare l’alto approfondimento scientifico con una grande capacità divulgativa e di intervento pubblico, sia nell’informazione radio-televisiva, che come editorialista su «La Repubblica», oltre che con interviste spesso apparse anche sulle colonne di questo giornale.
In questo libro Saraceno parte dal ritorno «dell’emergenza povertà nel cuore dei paesi ricchi» al tempo della «Grande Recessione» e crisi globale, al punto che nel 2012 Eurostat riportava che «circa centoventiquattro milioni di persone – il 24,8% dei ventotto paesi Ue – erano a rischio di povertà o di esclusione sociale». Mentre nel 2008, solo quattro anni prima, quella cifra era del 17%, secondo i dati della stessa Commissione europea. Ma la prospettiva è molto più ampia e permette di rintracciare la «crisi della società salariale» narrata da Robert Castel nel 1995 affondando nei grandi mutamenti geopolitici degli anni Settanta e seguenti, fino a ricordare «la filmografia degli anni Novanta», che mette al centro della sua rappresentazione il ritorno della povertà e del rischio di vulnerabilità sociale nei paesi del «capitalismo democratico»: Kean Loach in Inghilterra, Michael Moore negli Usa, i fratelli Dardenne in Belgio. È la narrazione in controluce dell’ultimo quarantennio neoliberista del turbocapitalismo finanziario che si affaccia continuamente tra le pagine generose di statistiche e tabelle distribuite nei cinque capitoli in cui è suddiviso il libro.

Chiara Saraceno poggia infatti la sua ricostruzione su una notevole mole di dati e studi che evidenziano l’aumento della povertà alimentare e abitativa negli Usa e in Europa, il rischio di vulnerabilità ed esclusione sociale al quale possono incorrere le famiglie monoreddituali rispetto a spese impreviste, l’incertezza economica per minori e adulti, in seguito alla crescente instabilità coniugale, le condizioni di marginalità in cui vive parte della forza lavoro migrante, l’insicurezza esistenziale cui sono ridotti giovani senza lavoro, studio o formazione (Neet generation). Per tutte queste «nuove» povertà, che rischiano di mettere in crisi anche quel che rimane del ceto medio, la soluzione non passa attraverso l’artificiosa e faticosa creazione di posti di lavoro. «Pensare che l’aumento dell’occupazione generi automaticamente una riduzione della povertà può, infatti, essere un’illusione, se non si considera attentamente di che tipo di occupazione si tratta e chi è più probabile che benefici dell’aumento della domanda di lavoro». Dinanzi all’incidenza della povertà nonostante il lavoro, dei lavoratori poveri (working poors) e del ricatto del lavoro gratuito, il dogma «lavorista» delle recenti riforme sociali, italiane e non solo, diviene parte del problema e non la soluzione.
Ma la situazione in Italia è ancora più drammatica, poiché si assiste a una scarsa efficienza delle politiche pubbliche il cui orientamento «unicamente lavoristico» è stato da ultimo confermato dal target dello sconto fiscale di ottanta euro mensili, «i lavoratori dipendenti a salario modesto», che è andato «a sostenere anche i redditi di famiglie dei decili più ricchi».

Per invertire questa decennale tendenza occorre prevedere «forme di integrazione economica per chi ha un reddito insufficiente». Così Chiara Saraceno evoca il tentativo di introdurre un sostegno di inclusione attiva (Sia) promosso dal ministro Giovannini del governo Letta e la fallimentare esperienza della Social card. Ma proprio in questi mesi sono state incardinate nel procedimento parlamentare le iniziative legislative di Sel e M5S per il reddito minimo garantito e reddito di cittadinanza, che la stessa Saraceno ricorda debbano prevedere forme universali di sostegno al reddito, perché «in attesa che le politiche del lavoro diano i propri frutti sperabilmente positivi sia sul piano dell’occupazione sia su quello del reddito da lavoro – cosa che non sembra essere dietro l’angolo – un paese civile e non (ancora) povero dovrebbe affrontare la questione del diritto alla sussistenza dei suoi cittadini e di tutti coloro che vi risiedono legalmente». È il diritto a un’esistenza libera e dignitosa, che passa per un welfare state universalistico fondato sul reddito minimo garantito.