no allora, portava da Castel Sant’Angelo alla Stazione Termini. Era uno dei primi mesi del 2016. Un anziano prete, insieme con una suora, mi chiedono un’indicazione stradale, in lingua francese.

Incuriosito, ne approfitto per chiedergli, a mia volta, cosa pensano di Hollande, allora presidente della Francia in carica, che non aveva ancora deciso se ricandidarsi. Mi risponde l’anziano sacerdote, che si rivelerà essere a Roma per eleggere il «Papa Nero» (padre generale dell’Ordine dei Gesuiti): «È una brava persona, di idee progressiste.

È anche un buon amministratore, tipico prodotto delle nostre grandes écoles». Dopo una pausa di riflessione, soggiunge: «Certo è mediocre. Ma non lo intenda come un giudizio personale, perché chiunque di noi al suo posto, risulterebbe mediocre, trovandoci a dover governare senza poteri che ormai sono nelle mani di una esigua minoranza di miliardari, in grado di condizionare la politica in loro favore, in qualsiasi circostanza».

Anche se il percorso era lungo, rallentato dal traffico romano, si avvicinava il momento del commiato, e tutti e tre ci troviamo d’accordo – la giovane suora intervenendo in maniera vivace – che non possiamo lasciarci su questa nota dolente.

Insomma, che fare? L’intesa è stata forzatamente rapida: usare tutte le libertà, individuali e collettive, per restituire istituzioni ancora democratiche ai cittadini che non si accontentino di un’eguaglianza ormai soltanto formale (non ce lo siamo mai detti, ma il papa, quello bianco, sovrastava il nostro incontro).

Negli anni successivi, altri mezzi urbani, altre piazze, per lo più torinesi, prima della pandemia. Con altri compagni e compagne distribuisco volantini per cause politiche che ritenevamo e tuttora riteniamo nobili – no alla riforma costituzionale voluta da Renzi, sì al trattato per l’abolizione delle armi nucleari, no ai licenziamenti in questo o quel posto di lavoro – ma scopriamo che, salvo da qualche persona spesso di conoscenza, il volantino viene rifiutato, talvolta con qualche parola di diniego: «Tanto i partiti sono tutti eguali… non m’interessa la politica…». Mi tornano in mente certi lontani ritorni a casa, per via Veneto, in cui – credo con la stessa cortesia – rifiutavo il volantino di chi m’invitava a raggiungere qualche locale romano di dubbia fama.

Ora ho un sogno. Innanzitutto, che tutti coloro che vogliono cambiare in meglio questa situazione, con o senza impegni politici impellenti – Letta, Zingaretti, i preposti ai partitini, anche semplici cittadini – prendano radicalmente atto della sua gravità; che prevalga in loro, su ogni pur nobile «spacca capelli in quattro», il desiderio del cambiamento, senza lasciarsi scoraggiare, neanche per un minuto. Con la consapevolezza, persino in epoca di pandemia mascherata, che esistono delle piazze, in presenza o virtuali, per lo più di giovani, che ancora si riempiono: contro la Dad, contro il razzismo, Fridays For Future, Società della Cura, Sardine, chi più ne ha più ne metta.

Che servono obiettivi chiari e semplici, strategicamente eloquenti, alla Bernie Sanders, che corrispondano ai bisogni diffusi dei più deboli (ove possibile, da realizzare almeno in parte, in attesa della legge o del contratto, soleva dire Vittorio Foa): lo «ius soli» proposto da Letta ma anche bagni e tetti per tutti; il voto ai sedicenni, caro a Letta, ma anche lezioni distanziate, all’aperto, ove e appena possibile; reddito di cittadinanza migliorato, ma intanto piena applicazione di quello esistente; riforma della legge elettorale che elimini i nominati, come richiesta comune, prima ancora di scannarci a favore o contro proporzionale e maggioritario…

Il sogno richiede «utopie rilevanti», dicevano, in contesti del tutto differenti, Martin Luther King e Barbara Ward Jackson. E cantano tuttora Joan Baez e Giovanna Marini. E nel frattempo prendiamo tutti il 64.