Saramago diceva di aver imparato a narrare dai racconti di suo nonno bracciante analfabeta…
Io mi facevo raccontare le storie dal mezzano di mio nonno, storie contadine favolose che poi ho ampiamente rubato per i miei libri.

Chi non legge pensando che sia qualcosa di noioso, cosa si perde?
Perde innanzitutto una parte di se stesso. Se è importante sentirsi unità compiuta per scelta personale, chi non legge non perché non può, ma perché non vuole, sappia che non vuole scientemente crescere né conoscere se stesso. Perché attraverso la comparazione di sé con la lettura si cresce. Io debbo tutto alla medicina: perché quando avevo sei anni non esistevano i vaccini, e io mi beccavo tutte le malattie infantili una dopo l’altra. Stare a letto era una meraviglia. Non si andava a scuola, la tele non era stata ancora inventata, la radio era un armadio. L’unica cosa che restava era la lettura. Mio padre era tutt’altro che un intellettuale, ma aveva un fiuto intellettuale straordinario per i buoni libri. E io gli chiesi, con una sorta di autocensura, quali potessi leggere, lui mi rispose: «Tutti quelli che vuoi». Così io, in primis, tirai fuori La follia di Almeyer di Conrad, il suo primo romanzo, e me lo lessi d’un fiato. Le letture per ragazzi le recuperai dopo. A novant’anni posso dire che se sono cresciuto, un contributo enorme me lo ha dato la lettura, oltre che l’esperienza. Aiuta a capire le ragioni degli altri, che magari non condividi, ma le comprendi. Chi non legge vuole essere povero.

Tabucchi diceva che le storie, le ispirazioni provengono o dalla cronaca dei giornali, o dai racconti di altri, oppure da narrazioni concesse dagli dei che ci cascano in testa come palloncini…
Le dico una cosa, con Tabucchi ci siamo inseguiti per tutta la vita, senza mai riuscire a incontrarci fisicamente. Qualcosa ha congiurato in tal senso. Telefonate, cartoline. Comunque, mi riconosco in tutte e tre le affermazioni. All’inizio della mia scrittura io non sapevo inventarmi nulla, per cui avevo bisogno di fatti di cronaca che poi stra-cambiavo. Per i romanzi storici come La mossa del cavallo sono partito dalla pagina di un libro di storia, che fungeva da innesco. Crescendo è cominciata ad arrivarmi qualcosa dall’alto. Ed è un rischio. Mi capitò di scrivere uno dei primissimi racconti, e Sciascia lo volle, Capitan Caci. Dopo una settimana comprai Due storie del porto di Bahia di Jorge Amado, scrittore che adoro, e con stupore immenso lessi un episodio identico a Capitan Caci. Telefonai a Sciascia, gli dissi: «non si può pubblicare, tutti diranno che l’ho copiato». Non riuscivo a spiegarmi il fatto, fin quando un giorno mi trovo a leggere uno degli ultimi articoli di Calvino, che recensiva un libro di storie fantastiche della letteratura italiana. E Calvino scriveva che un racconto, Lo Zio, lo aveva fatto rabbrividire, perché ne aveva nel cassetto uno suo identico. Forse per gli scrittori esiste una biblioteca archetipale, dove ogni tanto uno scrittore prende un libro, lo legge, e lo rimette a posto. Capace che a volte capiti che due scrittori attingano allo stesso libro archetipale.

Camilleri, De André ha detto una volta che una lingua nazionale come l’italiano sarebbe già finita miseramente come lingua per vendere patate e baccalà, se non si fosse nutrita degli idiomi locali, dei dialetti.
Non sapevo di avere un fratello gemello di pensiero. E che fratello. Sottoscrivo in pieno.

Qui la versione integrale dell’intervista