L’Accademia della Crusca si è espressa. Rispondendo alla Corte di Cassazione che chiedeva lumi su come debba essere una scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari, la Crusca ha scritto che «È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…»). Lo stesso vale per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola (nei quali peraltro non compromette sistematicamente la distinzione di genere tra maschile e femminile, così come quella di numero, tra singolare e plurale). La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto».

IN QUANTO donna, non mi sono mai sentita più inclusa dalla schwa o dall’asterisco, anzi quando vedo quei segni provo un fastidio immediato perché mi sembra mi si voglia cancellare, come fa una gomma con un segno di matita. Allo stesso modo, ogni volta che, in documenti ufficiali o articoli universitari, per essere inclusivi, si fa ampio uso di quella che la Crusca chiama «reduplicazione retorica», tipo lavoratori e lavoratrici, cittadine e cittadini, studentesse e studenti, avverto più la pensatezza della frase che la soddisfazione di essere evocata al femminile, perché lo so, lo sento che dentro a quel cittadini ci sono anch’io. E infatti, la Crusca bacchetta anche questa pratica quando scrive che il maschile non marcato è ben vivo nell’uso comune e fa alcuni esempi come «Tutti pronti?», «Siete arrivati tutti?», «Sono tutti sani e salvi!», «Scendete tutti da quella barca: sta per affondare!», aggiungendo che «In casi come questi, la reduplicazione, ammissibile nel discorso pubblico di un ministro o una ministra, di un rettore o una rettrice universitaria, di un sindaco o una sindaca, avrebbe effetti comici e inappropriati, specialmente in situazioni familiari o di urgenza». In effetti, ve lo immaginate se i soccorritori, per essere inclusivi, dovessero gridare Sono tutti e tutte salvi e salve? Scendete tutte e tutti da quella barca che sta per colare a picco.

POI, OGNUNO è libero di scrivere o parlare come preferisce, ma non è un caso se nella prassi orale la schwa o l’asterisco finale non stiano attecchendo, a meno che non si voglia cambiare l’italiano e decidere che da ora in poi non si diranno più le vocali finali, così saremo tutt ugual, indistint e appiattit, cosa che peraltro ha davvero fatto due anni fa un liceo di Torino, quando ha deciso di non usare più, nelle comunicazioni ufficiali, aggettivi e sostantivi connotanti il genere, per cui da allora scrivono a student e ragazz iscritt, e chissà se i student, e tolgo l’articolo che per carità può discriminare, si sentono più inclus o esclus dal quel neutro che, per rendere tutt ugual, cancella le differenze.

Le differenze sono importanti, marcano soggettività e inclinazioni, definiscono un’identità. Perché annullarle? Perché toglierle dal discorso? A chi giova? A chi serve? Di certo non alle donne che con il neutro linguistico spariscono anche dalla parola, dal detto, per finire in un minestrone che tutto mischia e confonde, fino all’annullamento, perché chi non è nominato non esiste.

mariangela.mianiti@gmail.com