L’economia contemporanea è caratterizzata dalla voracità dei mercati finanziari. E’ lì che sta il vero potere. Per questo, non c’è da meravigliarsi se di fronte all’acuirsi della tensione tra Usa e Iran alcuni fondi speculativi già si fregano le mani. Con le guerre c’è sempre chi ci guadagna e chi ci perde, anche nel mercato dei soldi.

E sarà così anche questa volta. Anzi, è già così: il prezzo del petrolio, trascinato per buona parte dal mercato dei derivati, è schizzato fino a oltre 70 dollari al barile dopo l’attentato al generale Soleimani. Non ci sono pozzi e raffinerie chiuse o saltate in aria, non ancora, ma l’ipotesi, solo l’ipotesi, che la crisi tra Iran e Usa possa risolversi in un conflitto aperto ha già indotto molti «analisti» a rivedere al rialzo le stime sull’andamento del prezzo del greggio nel breve termine, mettendo benzina nel mercato dei cosiddetti commodity derivatives, gli strumenti finanziari che hanno come sottostante materie prime.

È anche vero che il brivido della scommessa, dell’azzardo, non è per tutti e per questo altri investitori, prudentemente, stanno facendo rotta verso lidi sicuri. Come l’oro, mai così caro da sette anni a questa parte (1.588,13 dollari l’oncia), ma anche il palladio (ci vogliono adesso 2.020 dollari per un’oncia), metallo più raro e per questo maggiormente al riparo da cadute improvvise. Il denaro si è svincolato da un pezzo dall’abbraccio dell’oro e di altri materiali, ma quando i tempi si fanno cupi il metallo prezioso è sempre una garanzia. Soldi e oro tornano ad essere la stessa cosa, ovviamente non per tutti, certamente non per i ceti popolari.

Per usare una terminologia in uso agli operatori finanziari, si potrebbe dire, insomma, che anche in questo contesto investitori «orso» e investitori «toro», pur giocando partite diverse, si nutrono delle medesime aspettative. Tutte legate al rischio che la situazione, in un modo o in un altro, possa precipitare rovinosamente (o quasi).

Ma eccessi di euforia e di incertezza, slanci speculativi e chiusure difensive, insieme possono giocare brutti scherzi ad una economia mondiale che paga già il conto di una scriteriata guerra commerciale ed i postumi di una crisi che in alcune aree dell’economia-mondo capitalistica – leggi Europa – ancora non si riescono ad estirpare (in Germania la produzione di automobili è scesa nell’anno appena trascorso ai livelli del 1996, un calo del 9%).

È quanto paventa l’agenzia di rating americana Moody’s, quando parla di «shock finanziari particolarmente importanti» nel caso di conflitto duraturo tra la prima potenza economica e militare mondiale ed il Paese degli Ayatollah.

Non solo gli effetti diretti sull’economia di un aumento incontrollato ed incontrollabile del prezzo del petrolio (che potrebbe fare il paio con un aumento altrettanto incontrollato del prezzo di altri idrocarburi come il gas, visto il caos libico), ma anche, e soprattutto, il pericolo di un peggioramento delle «condizioni operative e di finanziamento», espressione ermetica, che tradotta significa una contrazione del mercato dei capitali, di cui risentirebbero subito alcuni settori produttivi dell’economia ed i livelli occupazionali.

Per le società del settore energetico, nello specifico, secondo Moody’s tutto questo si potrebbe tradurre in un «andare incontro a un più difficile accesso ai capitali nel 2020, con un indebolimento della liquidità, un aumento dei costi del capitale e un intensificato rischio default per le società con scadenze incombenti».

C’è poco da fare: la filosofia che guida i mercati finanziari non si cura di eventuali cadute dell’economia reale e delle condizioni di vita di milioni di persone.

Diversamente, non si spiegherebbe come la morte, le malattie, le catastrofi naturali, ogni tipo di sventura siano entrati nel carnet delle cose e degli eventi su cui poter speculare, scommettere, «investire». È un’altra guerra, quotidiana, che si combatte sulle piazze finanziarie e nei mercati paralleli di tutto il mondo. Che dalla guerra vera o in potenza, minacciata o cercata, può trarre grandi vantaggi.