In un celebre capitolo dell’Esprit de lois (1748) Montesquieu affermava che la divisione dei poteri nel sistema costituzionale inglese aveva una lontana radice in un’istituzione degli antichi Germani descritta da Tacito nel capitolo 11 della Germania: l’equilibrio dei poteri, elogiato in polemica con la monarchia assolutista francese, sarebbe stato «inventato nelle foreste». Questa evidente sovrainterpretazione dipendeva dal fatto che il testo di cui Montesquieu disponeva accoglieva la lezione pertractentur, per cui il senso del passo risultava «sulle questioni più importanti decidono tutti, ma i ‘principi’ le esaminano a fondo»: il potere dei capi sarebbe stato cioè bilanciato da quello dell’assemblea. Recava invece la variante praetractentur, che anche oggi si preferisce, il testo su cui più di un secolo dopo si fondò Engels, che si interessò allo scritto tacitiano nelle sue ricerche sulle forme precapitalistiche della proprietà agraria, sfociate nell’Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato (1884). Egli intese perciò «esaminavano in precedenza», attribuendo ai ‘principi’ una funzione istruttoria e orientativa, che lasciava un ruolo all’assemblea popolare, ma ne riduceva il peso e destituiva di fondamento ogni possibile lettura in senso ‘pre-parlamentare’: il funzionamento dell’assemblea delle tribù germaniche era per lui soltanto uno stadio organizzativo più evoluto rispetto ad altri popoli primitivi.
Questo piccolo episodio della ricca e sfaccettata ricezione del testo di Tacito mostra in modo esemplare come la scelta di una variante testuale possa produrre forzature interpretative e offrire una base a costruzioni ideologiche: costruzioni che, nel caso della Germania, non si sono fermate all’ingannevole affermazione di Montesquieu, ma hanno anche toccato abissi di degenerazione nazionalista e razzista. Basti ricordare il capitolo 4, in cui Tacito si dichiara d’accordo sull’autoctonia dei Germani, che spiegherebbe l’uniformità del loro aspetto fisico; il senso di ciò che segue cambia a seconda che si legga il limitativo tamquam («per quanto possibile in una popolazione tanto numerosa»), o il concessivo quamquam («malgrado»), che rafforzerebbe la definizione di un popolo non mescolato con altri attraverso matrimoni, ‘incontaminato’. Su questa seconda lezione, accettata nel testo, si fondò la rivendicazione della purezza razziale dei Germani e dei loro discendenti tedeschi nell’interpretazione di Chamberlain, l’ideologo di fine Ottocento della cultura völkisch di cui si nutrì il nazismo, e in alcune edizioni dovute ad autori filonazisti. Che la variante tamquam, pur minoritaria, sia da preferire fu dimostrato nel 1920 da Eduard Norden, grande interprete dello scritto tacitiano, e altri argomenti sicuri sono stati portati in seguito a suo sostegno. Norden dimostrò anche che il seguito dei capi delle tribù (comitatus) di cui parla Tacito nei capitoli 13 e 14 trovava un’analogia documentata presso altre popolazioni nordiche, e perciò non poteva essere considerato l’antecedente germanico del concetto di fedeltà personale al Führer (Gefolgschaft), come voleva il teorico del nazismo Rosenberg. Ma fu contestato e subì una progressiva emarginazione, mentre la Germania, sulla base di una deformazione che faceva leva principalmente su brevi passi decontestualizzati e manipolati, fu considerata uno dei libri sacri della costruzione identitaria nazista.
Destino singolare, quello dell’opera di Tacito: ignorata nell’antichità e nel Medio Evo, tornata in circolazione a metà del Quattrocento in un unico codice presto smembrato a fini commerciali, sopravvissuta in alcune copie, questa monografia, l’unica in latino appartenente al genere etnografico (altrimenti ricostruibile grazie a testi frammentari o a digressioni in opere storiografiche, come quella sugli stessi Germani nel VI libro del De bello Gallico di Cesare) attirò immediatamente un interesse rimasto inalterato nelle epoche e negli ambienti culturali più vari. Perciò non può più essere riletta e rianalizzata separatamente dalla storia della sua ricezione; tradurla, soprattutto tradurne alcuni snodi cruciali, e commentarla richiede un riesame delle scelte testuali, quindi traduttive, e delle conseguenti interpretazioni che si sono accumulate nei cinque secoli e mezzo che ci separano dalla sua riscoperta. Raggiunge pienamente questo obiettivo l’edizione, pubblicata nei mesi scorsi, a cura di Sergio Audano, il quale dopo l’Agricola (2017) ha affrontato per la stessa collana dei «Classici greci e latini» Rusconi la seconda monografia tacitiana, offrendo uno strumento completo per chi si accosti per la prima volta all’opuscolo e insieme aggiornato e non privo di nuove suggestioni per chi voglia tornare a leggerlo (Tacito, Germania, pp. CXCVIII-181, e 12,00). Tutte le principali questioni vengono toccate in una rassegna critica della ricca bibliografia, sia nelle dense note del dettagliato commento sia nell’ampio saggio introduttivo. All’interno di quest’ultimo un notevole spazio, più di un terzo, è dedicato a quella che viene definita la “(s)fortuna” della Germania. L’autore, la cui familiarità con i temi della ricezione dei classici è nota, ripercorre la storia del nostro testo dall’Umanesimo in poi a partire dalla sua riscoperta e si sofferma sulle tappe principali di una incessante rilettura di esso: si è detto di Montesquieu e di Engels, ma si ricorderà anche almeno Vico e la sua lettura dei Germani come esempio del primitivismo europeo.
Le pagine in questione rappresentano una guida efficace alla vasta bibliografia sulla ricezione della Germania, all’interno della quale si segnalano alcuni saggi ormai classici, come la nota monografia di Luciano Canfora del 1979, che si concentra sulla presenza dello scritto tacitiano nella cultura tedesca fra Otto e Novecento, e che si avrà l’occasione di rileggere in una nuova imminente edizione (La Germania di Tacito da Engels al nazismo, Officina libraria). Vi si ritroverà una ricostruzione dettagliata delle interpretazioni dei passi sopra ricordati (in particolare, dei capitoli sull’autoctonia dei Germani e sul comitatus), in uno spaccato di storia della cultura tedesca fra la proclamazione dell’impero nel 1871 e il nazismo, e nello stesso tempo un excursus di storia della filologia, valido a dimostrare come questioni testuali e/o esegetiche apparentemente innocue possano condurre a esiti imprevedibili e addirittura perniciosi.
L’edizione curata da Audano e la ripubblicazione del saggio di Canfora costituiscono un opportuno invito a rileggere un classico che, malgrado la vastissima bibliografia stratificatasi su di esso, continua a suscitare domande; ritornandovi, ci si stupisce soprattutto delle interpretazioni unilaterali fiorite nei secoli, affidate troppo spesso a letture parziali e all’assenza di uno sguardo globale. L’evidente utilizzazione di fonti diverse per le due sezioni in cui l’opera è bipartita (sull’insieme dei Germani e poi sulle singole tribù) produce l’impressione di una trattazione non sempre organica, con incongruenze anche sorprendenti. Basti pensare alla rappresentazione della donna germanica: le si assegna un ruolo eroico e quasi sacro nella prima parte, ma in uno degli ultimi capitoli viene definito segno di massimo degrado il fatto che sulla tribù dei Sitoni regni una donna. E anche se sfugge qualcosa del nesso fra l’interesse etnografico e l’intento politico di richiamare l’attenzione del neoimperatore Traiano su un popolo di spicco del fronte settentrionale dell’impero, la Germania è un testo affascinante, fra l’altro, perché ci invita a riflettere sulle ragioni anche politiche dell’etnografia; perché, descrivendo i «nuovi Romani di una volta» (per usare le parole di Audano), ci richiama alle radici dell’etnografia moderna, da Lafitau in poi, che descrivendo i popoli altri crederà programmaticamente di ritrovare il proprio passato più antico..
Una celebre definizione di Arnaldo Momigliano voleva che la Germania fosse «tra i cento libri più pericolosi mai scritti». Un libro molto pericoloso è il titolo di un altro classico degli studi sulla ricezione dell’opera, quello di Christopher Krebs (2012), il quale tuttavia precisava: «Tacito non ha scritto un libro molto pericoloso; i suoi lettori lo hanno reso tale». Tornare a leggere questo scritto con uno sguardo nuovo e con il sussidio di efficaci strumenti critici è perciò sempre utile, oltre che interessante.