La vicenda Palamara ha innescato una discussione francamente surreale. Invece di affrontare alla radice i problemi della giustizia in Italia, dei suoi rapporti con il potere e dei motivi per cui il rapporto dei magistrati con la politica si sia trasformato in uno scontro infinito per la supremazia, si discute della legge elettorale per l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Viene indicata come fonte della logica di lottizzazione e di spartizione delle nomine dei capi degli Uffici la presenza delle correnti nella magistratura. Tutti sanno che le lotte defatiganti per mettere un proprio uomo a capo delle Procure strategiche sono legate alle norme improvvide che hanno dato al Capo un potere assoluto sugli altri magistrati e un controllo sostanziale sulle priorità delle indagini. Inoltre, il rapporto distorto con il potere dell’informazione, con i rapporti privilegiati con giornalisti fidati ha determinato un ruolo mediatico fortissimo della magistratura rispetto alla politica.

Tutto questo miscuglio di perversioni ha accentuato la ricerca di un rapporto con l’opinione pubblica, alla ricerca di un consenso mediatico sulla lotta alla criminalità, spesso con operazioni di facciata destinate a finire nel nulla o ad alimentare la cultura del sospetto o del complotto. Il populismo penale è una malattia contagiosa e ha infettato la Repubblica.

La tabe ha origini antiche. Come fu possibile che il Presidente del Tribunale della razza divenisse Presidente della Corte Costituzionale? Come fu possibile che la Cassazione eliminasse le sanzioni contro il fascismo e i giudici si esercitassero nel processo alla Resistenza e nella persecuzione contro i partigiani?
Come lamentava Leonardo Sciascia, avere salvaguardato il principio della continuità dello Stato ha consentito che dopo novanta anni sia ancora in vigore il Codice Rocco del 1930, voluto da Mussolini e firmato da Vittorio Emanuele III.

Se molte cose sono cambiate nella magistratura ciò è dovuto alla contestazione della prassi giudiziaria e in particolare di quella degli “ermellini” da parte di Magistratura Democratica, e di avere assunto decisioni in nome della Costituzione e non della difesa degli interessi privati (ricordo di avere partecipato da giovane alle contro inaugurazioni dell’Anno giudiziario e alla raccolta firme per un referendum per cancellare i reati d’opinione).
Se si vuole discutere seriamente dei problemi della giustizia si ricominci la discussione sulla base dei testi di Achille Battaglia degli anni cinquanta e sessanta, «Processo alla Giustizia» e «I giudici e la politica».

Per fortuna vi sono differenze di cultura e di sensibilità tra i magistrati, tra garantisti e giustizialisti, tra forcaioli e persone legate ai principi dello stato di diritto.
Chi demonizza le correnti odia il confronto delle idee e sogna il ritorno della casta o il prevalere della corporazione. Tutte esperienze che abbiamo conosciuto come espressione del peggiore regime.

E’ evidente che se il Csm è eletto per un terzo dai magistrati, il metodo di elezione deve garantire la rappresentanza secondo un metodo limpido. Se non si vogliono far emergere le differenze culturali e di ispirazione ideale, non rimane che il sorteggio. Ma per conseguenza anche le decisioni dei processi potrebbero essere affidate al metodo infallibile della “testa o croce”.
Così ci liberemmo anche del fastidio del giusto processo stabilito solennemente dall’art. 111 della Costituzione, conquistato con una aspra battaglia nel 1999.