Una revisione costituzionale ampia, come quella di cui si discute, fatta da un parlamento la cui composizione è stata dichiarata incostituzionale, avrebbe dovuto richiedere un confronto ampio per trovare un consenso almeno superiore ai due terzi dei voti. Non per evitare il referendum confermativo, poiché una delle norme da cambiare era proprio quello che lo escludeva. Il patto del Nazzareno non bastava. In ogni caso è nella discussione pubblica che si assumono gli impegni e non in segrete stanze e senza un testo scritto. Ora i nodi stanno giungendo al pettine e chi vuole la riforma ad ogni costo non può contare, per ragioni di dignità politica, su profughi o transfughi per ottenere una risicata maggioranza.

L’accordo sul superamento del bicameralismo paritario è vasto e quindi la revisione, non chiamiamola riforma per rispetto di questa parola, poteva procedere spedita. Sulla linearità e trasparenza del processo di revisione costituzionale e della parallela nuova legge elettorale avrebbero dovuto vigilare il presidente della Repubblica e la presidenza delle due camere. Così non è stato, anzi si sono commessi strappi regolamentari, comunque, politicamente sbagliati. Ora siamo in zona Cesarini e le posizioni sono chiare, nel senso, che le decisioni sono politiche e non di natura regolamentare, grazie anche ad un illustre precedente del 1993, quando la camera era presieduta da Giorgio Napolitano e il senato da Giovanni Spadolini, relativo a una norma costituzionale delicata come l’articolo 68.
Alcuni squilibri sono difficili, ma non impossibili, da eliminare come lo squilibrio numerico tra Camera e Senato, 630 vs 100. Quello che non va è l’ambiguità senza precedenti della natura del senato, inammissibile in un paese che storicamente in un senato – quello romano – ha avuto un organo collegiale di esercizio e controllo del potere. Così come configurato il senato non è l’espressione tipica degli Stati federali, né nella forma dell’elezione diretta in numero uguale da parte della popolazione dei soggetti federati (Stati uniti, Confederazione Elvetica), né di rappresentanza degli esecutivi dei soggetti federati (Bundesrat tedesco ), men che meno un corpo legislativo rappresentativo del sistema delle autonomie (senato francese).

Nell’ottica di un senato delle autonomie, nessuno è stato in grado di spiegare per quale ragione gli unici soggetti esclusi a priori saranno i sindaci metropolitani che si facessero eleggere direttamente dai cittadini. Non è un caso che nell’ultima tornata amministrativa alcuni consiglieri regionali si siano fatti eleggere sindaci di comuni sotto i 5mila abitanti, e perciò compatibili. Un sindaco di Milano non potrebbe andare in senato nemmeno un giorno alla settimana, mentre quello di Roccacannuccia o di Borgo San Giovanni (paese di cui sono stato sindaco nel 1983-88) sì.
Si dimentica inoltre, che i consiglieri regionali sono e saranno eletti con leggi maggioritarie con premi di maggioranza che variano da un 55% ad un 61% e con soglie di acceso che raggiungono anche il 10%. Non rappresentano quindi la popolazione della loro regione, e nemmeno i governi regionali, perché tra i senatori ci saranno, non è chiaro se in proporzione ai voti o ai seggi, anche consiglieri di minoranza. In un tale contesto non potrà essere abolita la conferenza Stato-Regioni. Occorre allora chiarirsi sulla natura e sulla funzione della seconda camera, la proposta di un listino di consiglieri da far votate dagli elettori, anche se non bloccato, non è una mediazione seria. È una pezza peggiore del buco.