Ogni libro (parliamo ovviamente dei libri di carta) ha una fisicità di cui sarebbe utile tenere conto. Nel caso dell’Oracolo manuale per poete e poeti di Giulio Mozzi e Laura Pugno, da poco uscito per Sonzogno (pp. 400 circa, euro 16), questo è più evidente che in altri testi. Oltre tutto, proprio a metà del volume si può leggere – anche a sostegno di questa tesi – che «la forma è sostanza, la sostanza è forma» e nel commento alla frase viene citato un brano di Aristotele due righe del quale paiono del tutto pertinenti: «Se uno strumento, per esempio una scure, fosse un corpo naturale, la sua essenza sarebbe di essere scure, e quest’essenza sarebbe la sua anima».
L’essenza dell’Oracolo di Mozzi e Pugno si incarna dunque in un parallelepipedo piccolo e compatto che ricorda le vecchie guide turistiche o i breviari, di quelli che si trovavano e forse ancora si trovano nelle chiese a disposizione dei fedeli. Il paragone non è fuor di luogo perché anche questo libro si presta, come vedremo, a una consultazione saltuaria, sebbene non casuale.

SULLA COPERTINA verde scuro, proseguendo nella descrizione del volume, ci sono quattro elementi: il disegno di un gatto che osserva famelico un uccellino (altri gatti, tutti opera del grafico polacco Sebastian Kudas, si trovano nel libro e sulla quarta di copertina), i nomi degli autori, il logo della casa editrice e infine, soprattutto, il titolo. Che, sottolineano Mozzi e Pugno nella premessa, «ha una parola strana»: poete, femminile plurale. In realtà (si potrebbe aggiungere) poeta, femminile singolare, non è più tanto strano e sta anzi soppiantando poetessa per il dispregio che connoterebbe il suffisso -essa. Ma da parte di chi? Principesse, baronesse e studentesse non si esprimono, Mozzi e Pugno ammettono che «sarà il tempo a decidere se questa parola si affermerà o svanirà nel nulla» e di conseguenza anche noi lasceremo ai posteri la scelta.

IL FRONTESPIZIO del libro ci avverte però che al titolo segue un sottotitolo: «Metodo rapido ed efficace per migliorare la propria capacità di scrivere in versi, particolarmente adatto ai principianti ma non privo di utilità anche per gli esperti». Vale la pena citarlo per esteso non solo perché qui è detto molto – a cosa serve il libro, a chi si rivolge – ma anche perché un sottotitolo analogo accompagnava il titolo dell’opera che precede questa, Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, pubblicato dal solo Giulio Mozzi nel 2019 sempre per Sonzogno.
Abbiamo dunque a che fare – dietro la necessaria ironia – con un metodo collaudato e in entrambi i casi fondato sull’esperienza – là i venticinque anni di scrittura, insegnamento ed editing di Mozzi, qui i cinquant’anni, «venticinque per ciascuno dei due autori», di una «immersione profonda nella lingua, nel mondo e nell’io» (Pugno) e di «una partita tra lui e i diversi ’ii’ che sembrano popolare la sua mente» (Mozzi). Insomma, «questo libro è un gioco» e «questo libro non è un gioco», per riprendere i titoletti di due paragrafi della premessa.

VEDIAMO ALLORA in cosa consiste il metodo e il (non) gioco. Aprendo in un qualsiasi punto il volume (attenzione: le pagine non sono numerate e non c’è sommario), troviamo sulla pagina di destra una frase breve, scritta in grande e in neretto, isolata sul fondo bianco, e sulla pagina di sinistra – nel corpo in cui sono di solito stampati i libri – una sorta di eco o di replica (in corsivo) e una spiegazione (in tondo). Chi userà il libro in modalità oracolare, non leggendolo cioè in sequenza, lo aprirà quindi a caso e trarrà dalla frase, e poi dall’eco e dal commento, spunti per riflettere su quanto sta scrivendo.
Un esempio, scelto non a caso sia per la sua estrema brevità, sia perché si presta a essere interrogato anche al di fuori dell’oracolo: (a destra) «È per tutti»; (a sinistra) «La poesia, lo è». E sotto: «E se non lo è, forse non è poesia»). (E, naturalmente, non è «per tutti» nello stesso modo in cui è «per tutti» la prima serata di Rai1)».

PRIMA DI TORNARE su questo «per tutti», chiave di volta del libro e suo nodo principale, aggiungeremo che nelle frasi divinatorie – perlopiù opera di Pugno, avvertono gli autori – si insiste spesso sulla dimensione sensoriale («Fa’ attenzione al bianco», «Mescola le percezioni», «Che odore hanno i tuoi versi?»…) e che i commenti – perlopiù opera di Mozzi, anche se tutto «è piuttosto rimescolato» – propongono letture e ascolti e visioni collaterali nel segno di un’almeno apparente ecumenicità: Dante e Leopardi, Ciro di Pers e T.S. Eliot, Aldo Palazzeschi e Stefano Dal Bianco, e Bill Viola, i Monty Python e pure Cristiano Malgioglio.
Dunque, la poesia si nutre (anche) del presente e – lo ripetiamo – è «per tutti», a rischio sennò di non essere poesia. Ma chi è questo «tutti», chi il «tu» a cui Mozzi e Pugno lanciano esortazioni e domande, pur essendo giustamente convinti «che non si possa insegnare a fare poesia e tantomeno a essere poeti»? Chi è la lettrice o il lettore di un libro in cui si ragiona con leggerezza e serietà di poesia in un paese dove quasi nessuno (lo scriveva già una quindicina di anni fa Guido Mazzoni in Sulla poesia moderna) saprebbe citare il nome di cinque poeti viventi e d’altro canto milioni di persone – lo vediamo ogni giorno su Facebook – sono convinte di scrivere versi andando a capo alla metà di una riga?
Non sono domande retoriche e l’oracolo non risponde.