«Signor presidente, signori delegati, vi parla la delegazione di Cuba, isola situata all’imboccatura del Golfo del Messico, nel mare dei Caraibi». È l’esordio del discorso tenuto alla Conferenza mondiale del commercio e dello sviluppo dell’Onu che Ernesto Che Guevara pronuncia a Ginevra il 25 marzo del 1964. Le indicazioni geografiche, dice, dimostrano che «vi parla un paese sottosviluppato che ha subito sulla propria pelle le piaghe dello sfruttamento colonialista e imperialista». Un discorso di cruda denuncia. Si conclude con un auspicio. È la rivendicazione d’appartenenza a uno schieramento, a una parte: «Ci sforziamo di dare un contributo all’unità del campo dei paesi sottosviluppati del mondo per formare un fronte compatto, mettendo tutte le nostre poche forze al sevizio del suo trionfo».

Un anno dopo, nel marzo 1965, il Che darà seguito al suo proposito, farà la sua scelta. Lascerà gli incarichi di governo a Cuba per «l’azione armata», la guerrilla in Bolivia: «altre sierras reclamano il contributo delle mie modeste forze», scrive a Fidel Castro, «fino alla vittoria sempre. Patria o Morte». Quando, partito da Ginevra per Praga, Guevara intraprende il viaggio di ritorno, il volo prevede uno scalo a Roma. Ne approfitta per una breve sosta che gli consente di incontrare il poeta Rafael Alberti nella sua casa di via di Monserrato, come testimonia Ignazio Delogu, e, poi, nel pomeriggio, di recarsi a Montecitorio per un colloquio con Palmiro Togliatti. «Alto, bello, in divisa militare verde oliva, il Guerrigliero apparve nel vano della porta barocca del palazzo che Innocenzo III aveva destinato alla curia papale. Portava alla cintola, bene in vista, una grossa Mauser brunita».

Così ce lo presenta Massimo Caprara, all’epoca segretario di Togliatti, nel suo Quando le botteghe erano oscure, il libro nel quale egli racconta uomini e storie del comunismo italiano, tra 1944 e 1969. È facile arguire che quella pistola esibita abbia creato un inevitabile contenzioso tra il ministro della Repubblica di Cuba e gli addetti alla vigilanza della Camera dei deputati della Repubblica Italiana. Il Che si rifiuta tassativamente di consegnare l’arma sulla soglia di Montecitorio. Quella pistola, dichiara a Caprara, «non lo lasciava mai da quando, nell’aprile di sette anni prima, aveva partecipato, lui già comunista e i suoi compagni poco più che borghesi radicali di sinistra, al primo scontro dell’‘esercito ribelle’ contro le truppe governative di Batista nei pressi dell’Uvero e di El Hombrito, sotto la Sierra Madre a Cuba». È da credere dunque che la tenesse nella fondina, la sua inseparabile Mauser, anche durante il discorso di Ginevra, forse ogni tanto sfiorandola, secondo che le pause della retorica lo consentissero, o che gli argomenti cui faceva ricorso nella sua appassionata esposizione lo invitassero, eloquente memento, a carezzarla. Ma tant’è, il ministro passeggia nei corridoi del Parlamento armato e armato si presenta a Togliatti. Ricorda Caprara: «Bussai alla porta e l’introdussi nello studio di Togliatti, al terzo piano. Il Guerrigliero tese la mano e si presentò con voce bassa e pacata: ‘Ernesto Guevara Lynch’. Fece poi alcuni passi verso il divano di pelle rossa che il segretario del Pci gli indicava affabilmente, dopo aver ricambiato la stretta».

Nell’attesa d’esser ricevuto il Che conversa con Caprara. Lo scambio di vedute tocca vari argomenti, stimolati anche dal percorso negli ambienti di Montecitorio. Davanti a un busto di Garibaldi, Caprara dice a Guevara d’una litografia di fine Ottocento dove, sotto il ritratto dell’Eroe dei Due Mondi, su un cartiglio si leggeva: Distrugge le glorie del soldato per diventare riformatore. Una frase, pensa il segretario di Togliatti, che «poteva riguardarlo».
Il Che «ribattè che lui non aveva mai rinunciato a sentirsi soldato», e gli racconta il suo battesimo del fuoco, nell’ottobre del 1958, quando fu catturato il colonnello Nelson Carrasco Artiles: «Avanzammo sino a un fossato a pochi metri dalla trincea nemica. I ribelli e i soldati della Dittatura erano così vicini che si potevano vedere le loro facce illuminate dalle detonazioni».