Il ventiseiesimo Trieste Film Festival ha voluto festeggiare il ventesimo anniversario dell’agenzia che coordina la produzione nel cinema sloveno, lo Slovenski filmski center, e non c’è che da rallegrarsene. Purtroppo però la ricca rappresentanza del cinema sloveno in quest’edizione non corrisponde a risultati altrettanto convincenti. Nella corrispondenza precedente abbiamo segnalato il felice momento per il cinema croato, il serbo e il romeno (la cui rappresentanza si è completata con un bel corto di coproduzione ungherese, A kivegzes di Petra Szocs). Rispetto a questo momento di slancio delle tre cinematografie al cuore dei Balcani, il cinema sloveno sembra piuttosto condividere le difficoltà delle restanti cinematografie ex-jugoslave: alla bosniaco-erzegovese lo unisce il merito dell’apertura internazionale (qui il Festival di Sarajevo, la scuola di cinema diretta da Bela Tarr, la coproduzione di Les ponts de Sarajevo) ma i risultati produttivi e le presenze registiche locali devono ancora trovare le vie migliori; da Macedonia, Montenegro e Kosovo invece non è arrivato nemmeno un film.

 
Viva dunque la tenacia slovena, che si manifesta anche altrove: in questi giorni nella vicina Pirano si è visto un interessante documentario sulla casa di produzione nazionale fondante, la Triglav film, e sul suo direttore Branimir Tuma, figura dimenticata e da riscoprire; il film è stato diretto dal direttore di fotografia Radovan Cok, ed ha concluso una mostra che prelude a omaggi al grande Frantisek Cap, cineasta ceco che aveva eletto l’appartenenza alla Slovenia. L’apertura di orizzonti slovena si nota anche nelle sue coproduzioni internazionali: lo si è visto già con alcune coproduzioni della friulana Tucker mentre anche tra i film visti a Trieste il serbo Varvari di Ivan Ikic e il croato Kosac di Zvonimir Juric, capolavoro massimo di quest’edizione del festival, sono coproduzioni minoritariamente slovene.

 
Se però passiamo all’attività dei registi sloveni, non si è ancora arrivati a rivelazioni capaci di prolungare l’esordio di qualche anno fa di Jan Cvitkovic, regista forse meno discontinuo di quanto non appaia e il cui terzo lungometraggio è stato alquanto sottovalutato. Janez Lapajne, che a tratti è interessante, ha forti tentazioni di accademismo, soprattutto quando dall’attività registica passa ai ruoli di produttore e montatore. In questa veste ha realizzato l’unico film sloveno arrivato da parecchi anni nella distribuzione italiana, Razredni sovraznik ovvero Class Enemy di Rok Bicek, film in cui ci dispiace riconoscere un grande equivoco «di qualità» e di presunta spregiudicatezza. Lo riteniamo purtroppo un film desolatamente falso da cui il cinema sloveno dovrebbe guardarsi anziché eleggerlo a modello per la sua «capacità di piacere».

 
Un cineasta solitario come Vlado Skafar merita invece vera attenzione, così come alla Slovenia sarebbe utile un qualche ritorno progettuale coproduttivo del vojvodinese Zelimir Zilnik, che nel cinema serbo (e più in generale sul territorio jugoslavo) rappresenta dagli anni ’60 a oggi la linea più coerentemente aperta alla realtà dei luoghi e delle presenze umane.
Il veterano del cinema sloveno, il grande Matjaz Klopcic, purtroppo non c’è più, e la Slovenia non ha saputo riconoscere nei suoi film della vecchiaia il loro grande valore. La disconoscenza del maestro Klopcic nel momento in cui la sua opera diventava ancora più importante è stato un grande errore nelle direzioni prese dal cinema sloveno, una rottura con la sua migliore tradizione, rivelatasi anche nell’incapacità di coprodurre l’ultimo film del serbo Zivojin Pavlovic e nell’abbandono all’inattività di cineasti marcanti come Hladnik, Pogacnik e Godina.
Purtroppo ciò contraddice l’attenzione saggistica e documentaristica di film come quello citato su Tuma.

 
A Trieste si è visto invece un documentario sulle presenze femminili (attrici e personaggi) nel cinema sloveno, Kaj pa Mojca? di Ursa Menart, che resta purtroppo molto inadeguato rispetto alla storia che tratta, e alle interessanti (ma talvolta troppo brevi) testimonianze di attrici si è sovrapposto un codice pseudofemminista. Pur citando ampiamente il film di Godina che la include vi si ignora invece la splendida canzone Kaj ti je deklica? (Che cos’hai, ragazza?), che è tuttora l’esplicitazione di una domanda che il cinema sloveno ha incessantemente rivolto al femminile identificandovisi.Molto deludente anche l’esordio nel lungometraggio di Sonja Prosenc Drevo che mira a un pathos tragico ma raggiunge solo l’indifferenza verso i propri personaggi.
Curiosamente nel festival le più interessanti tracce odierne del cinema sloveno erano nei film più a margine. Il documentario di Jurij Gruden Ziveti kamen coprodotto dai programmi sloveni della sede RaI regionale, con fotografia di Radovan Cok, ha il pregio di un approccio sensibile alle vicende della pietra carsica e delle sue cave: un film da cui si imparano tante cose (per esempio che il passaggio dall’Austria all’Italia ha segnato l’abbandono di quelle cave data la molteplicità di cave sulla penisola, adombrando vicende come quella carrarese con la sua tradizione anarchica), e vi appaiono persone che parlano con amore del rapporto con la pietra. Non male anche la sigla del festival di Ivan Bormann sull’ex confine italo-sloveno, con un personaggio femminile che scopre in un pozzo il cinema: bel colore tendente al rosso, e una bella presenza d’attrice (stranamente non accreditata in catalogo).

 
Si torna alle delusioni con l’ultimo film sloveno del festival, in coproduzione austriaca, diretto da Marko Nabersnik con un titolo che in traduzione (The Woods Are Still Green) riecheggia il rapporto tra natura e grande guerra dell’ultimo Olmi, e a tratti l’ultimo Zurlini. Ma si tratta di apparenze: la camera mossa del film segue più la lezione del Dogma che la tensione di messinscena dei grandi registi.