Marcel Proust in una pagina della Prigioniera: «In tavola nella buia sala da pranzo, dove i prismi di vetro su cui posano i coltelli proiettano fuochi multicolori belli quanto le vetrate di Chartres». Difficilmente gli riuscirebbe un parallelo del genere oggi, dopo che i restauri della cattedrale hanno «spento» quell’effetto prodigioso prodotto dalle straordinarie vetrate. Rimettere piede a Chartres, per chi l’aveva già vista negli anni passati, è un autentico choc.

Tutta la navata centrale è stata rimessa a nuovo con un’operazione di ripristino davvero sconcertante. Colonne e semicolonne e archi sono stati dipinti di un bianco crema, mentre le parti di muratura in pietra sono di un beige tratteggiato da linee chiare che disegnano i confini delle pietre stesse. È una Chartres «disneyzzata», ridotta un po’ a parodia di quello che non è mai stata… Un cartello all’ingresso del portale Sud spiega che con il restauro si è voluto restituire quella che doveva essere l’immagine della cattedrale nel momento della sua costruzione: idea del tutto anacronistica, che pretende di cancellare il tempo, quando lo stesso tempo ha depositato segni vistosi e decisamente inamovibili nel tessuto della cattedrale stessa, in particolare nella vasta area del coro che accoglie il grande jubé (la recinzione) decorato da ben ventotto grandi retabli scultorei datati tra metà 1500 e inizi 1700. Oppure basta guardare l’immensa Assunzione di Charles-Antoine Bridan, che con le sue trenta tonnellate di marmo bianchissimo di Carrara domina il cannocchiale visivo appena si varca la soglia.

Il restauro aveva sollevato polemiche giustamente feroci come quella lanciata da Martin Filler, storico dell’architettura, sulla «New York Review of Books», con un lungo articolo intitolato «The scandalous makeover of Chartres»: «Ciò che è più choccante è che i lavori non hanno minimamente tenuto conto dei criteri stabiliti dalla Carta di Venezia, oltre 50 anni fa», ha scritto Filler. «Anche se gli interni di Chartres erano inizialmente più chiari, non sono stati visti in questo stato da secoli. L’idea che si possa ricreare l’aspetto originale della costruzione con strumenti artificiali è altrettanto aberrante che immaginare che una vecchia attrice possa ritrovare la sua giovinezza grazie a un lifting».

Il restauro era stato affidato a Frédéric Didier, già autore di un ripristino sconcertante nella basilica romanica di Paray-le-Monial, nell’alta Borgogna, dove l’intera superficie interna è stata ridipinta di un colore arancione fuoco, sulla base di un ritrovamento di ridipintura per altro quattrocentesca. Lo stesso Didier è oggi responsabile dell’intervento in corso nella basilica di Vézelay, straordinario gioiello del romanico transalpino.

Da parte francese sono state pochissime le voci che si sono levate contro l’intervento di Chartres: nessuna preoccupazione di fornire spiegazioni a livello pubblico. Solo dopo la presa di posizione di Filler il ministero della Cultura ha ritenuto di fare una comunicazione, spiegando che sull’intervento c’era il consenso di tutti gli esperti chiamati in commissione.

In realtà c’è il sospetto che «il vero driver nella “filosofia” di questo restauro siano stati i soldi», come ha detto Edson Armi, storico dell’arte. Ai tanti soldi ricevuti dal governo francese e dall’Unione europea si sono aggiunti quelli raccolti dall’associazione America friends of Chartres.

Tra i pochi interventi polemici in Francia c’è da registrare quello dello storico dell’arte Adrien Goetz sul Figaro che, tornando sul tema di quella suggestione proustiana, aveva scritto che ora guardare le vetrate di Chartres è come «guardare un film al cinema dove non sono state spente le luci». Ribadisce Filler: «Prima dell’intervento Chartres era come un guscio di un Nautilus ombroso, dove ogni finestra emergeva con la forza e la sorpresa di una rivelazione».

Ora quell’effetto vive solo per le vetrate del transetto, l’unica zona della cattedrale che non è stata ancora spalmata di quelle vernici biancastre e cremose e dove ancora domina il contrasto reso possibile dalla dominante della pietra resa scura dal tempo.

Era questa la cattedrale che aveva visto Proust nel suo viaggio del 1902. Quella che aveva visto anche Charles Péguy nel giugno 1912, quando arrivò qui a piedi da Parigi per un pellegrinaggio in cerca di un qualcosa che poi avrebbe scoperto essere la propria conversione. Ed era questa la cattedrale che stregava Giovanni Testori, nelle sue ripetute incursioni durante i soggiorni parigini.

Personalmente ho il ricordo di una visita con lui: davanti alle meravigliose vetrate della facciata sud indicava a ripetizione dettagli (l’Annunciazione in particolare) che già annunciano Matisse.

Oggi quelle vetrate della facciata meridionale si stemperano nel chiarore della cattedrale e riacquistano lo splendore di un tempo solamente nelle ore del tramonto, quando il sole con la sua luce «bombarda”» i colori e attenua l’effetto invasivo degli intonaci.

Sono le sole vetrate sopravvissute all’incendio del 1194 che aveva distrutto la cattedrale del geniale vescovo Fulbert, straordinario attrattore di capitali per questo immenso cantiere circondato dalla campagna francese.

Sono le vetrate, databili intorno al 1150, contrassegnate da quel blu profondo e pieno di luce, che, come ha spiegato Enrico Castelnuovo nel suo imprescindibile libro Vetrate medievali (Einaudi, 1994), gli artigiani di Chartres riuscivano a ottenere grazie a una formula che prevedeva alte percentuali di sali di sodio.

L’occhio contemporaneo resta folgorato dalla regolarità di quella griglia quadrata, dove il romanico sembra già preludere alla regolarità delle perpendicolari di Mondrian. L’artista delle vetrate con l’Albero di Jesse riesce nell’impresa ardua di costruire un’immagine unica e fluida, che certamente ha ispirato l’inerpicarsi dei rami e delle foglie nell’Albero della vita, la vetrata di Matisse dietro l’altare di Vence.

L’arbitrarietà dei restauri ha sfiorato anche le sculture del portale esterno della stessa facciata, le più belle, con quella grazia greca che disegna nella pietra le vesti e le capigliature. Alcune delle figure più esposte alle intemperie sono state sostituite, completandole però anche nelle parti perdute (addirittura è stato reintegrato integralmente un volto distrutto); è possibile fare i confronti perché gli originali sono esposti nel percorso della gigantesca cripta «ad anello».

Nonostante la brutalità di questi interventi Chartres resta comunque sempre quella cattedrale leggera e libera a cui Charles Péguy aveva dedicato le sue cinque magnifiche preghiere in forma di poesia.

Lui ci era arrivato in un momento molto drammatico della sua vita anche per le difficoltà a livello familiare, dalle malattie dei figli al confronto con la moglie atea. Su di lui si era riversato il disprezzo, se non addirittura l’odio, del «partito dei devoti», gli intellettuali cattolici, che avrebbero voluto da lui un atto di obbedienza morale come riscontro della conversione. «Vivo senza sacramenti (per via della situazione irregolare del matrimonio, ndr)», scriveva all’amico Joseph Lotte. «È un’impresa folle. Ma godo del dono della grazia, di una sovrabbondanza di grazia inconcepibile».

Per lui Chartres era «una punta laggiù nell’increspatura», «ferma come una speranza sull’ultima collina, sull’ultimo colle la guglia inimitabile».

Non presenza imponente, ma luogo di una grazia giovane e imprevista, dove tutto è semplice, a partire proprio dal cristianesimo.

Come recita uno dei suoi versi (in una nuova magnifica versione di Luca Doninelli) «ciò che dovunque altrove è solo una caparra / è qui la soglia in pari col gradino».