Cosa ci faceva un batterista jazz nella band che passerà alla storia come l’incarnazione stessa del rock? Non si parla solo di musica, anche se musicalmente Charlie Watts era nato e cresciuto col jazz e quel primo amore non lo avrebbe mai dimenticato e abbandonato, continuando invece a suonarlo, da solo e con una serie di gruppi come il Charlie Watts Quintet e poi Tentet. Ma Watts, scomparso ieri a 80 anni per cause ancora non ben chiare – le complicazioni di un intervento chirurgico la cui natura non è stata resa nota, probabilmente la sostituzione dell’aorta e che lo aveva già costretto a disertare le prove per il prossimo tour degli Stones – era diverso dagli altri Stones anche nello stile. Molto classico, come i jazzisti degli anni ’40 e ’60 e sempre elegante, tanto da essere citato spesso tra gli uomini più eleganti d’Inghilterra. Calmo, quasi compassato, sempre ironico, fino all’ultimo: «Per una volta il mio tempismo è stato un po’ sbagliato», commentava parlando della sua malattia ancora pochi giorni fa.

QUANDO Mick e Keith, i Glimmer Twins, volteggiavano – il primo sulla scena newyorchese più alla moda, il secondo tra una droga e l’altra – Charlie collezionava divise della guerra civile americana. Mentre Bill Wyman, allora bassista del gruppo, contava le avventure di una notte con le grupies a centinaia e Mick si affermava come il principale sex symbol della sua epoca, Watts restava fedele alla moglie, sposata nel 1964, meno di un anno dopo essere diventato un Rolling Stone. Compariva con parsimonia estrema sulle riviste rock e mai su quelle di gossip. Per certi versi era quasi tanto anomalo quanto Ian Stewart, che è stato di fatto il pianista della band fino alla scomparsa nel 1985 e che doveva essere tenuto nascosto proprio perché la sua «normalità» stonava con il look e l’immagine pubblica degli Stones.
Del resto i due, Charlie e Ian, suonavano insieme anche con la loro band, i Rocket 88, quando gli impegni della «più grande rock’n’roll band del mondo» gliene lasciavano il tempo.

CHARLIE nascosto non è stato mai. In realtà proprio per la sua distanza dagli altri rappresentava una specie di controcanto ironico allo stile della band: a modo suo legava perfettamente con gli Stones nello stile come nella musica e del resto proprio lui aveva regalato il titolo al primo film sugli Stones, Charlie is My Darling, un documentario in bianco e nero del 1966 diretto da Peter Whitehead e mai distribuito fino al 2012. Veniva dalla grande scena blues della Londra dei primi anni ’60, suonava la batteria in una delle band seminali dell’epoca, la Blues Incorporated di Alexis Korner, gran maestro della scena londinese: una sezione ritmica completata dal futuro Cream e grandissimo bassista Jack Bruce. Ma nei confronti di quella leggendaria covata di grandi musicisti Watts marcava la sua distanza: quelli venivano tutti dal blues e al blues guardavano. Lui si ispirava al be bop.

EPPURE nel sound degli Stones Watts era essenziale quanto Mick Jagger e Keith Richards e ne era ben consapevole. Quando negli anni ’80 Mick lo svegliò nel cuore della notte urlando «Dov’è il mio batterista», si vestì di tutto punto, scese nella suite dell’albergo con massima calma e mollò un cazzottone alla superstar: «Non permetterti mai più di chiamarmi il tuo batterista, Tu sei il mio fottuto cantante». Fu un caso più unico che raro perché Charlie Watts sfuggiva anche alle leggendarie tensioni fra i membri della band, quelle che alla fine travolsero e distrussero il fondatore Brian Jones ma che a lungo, negli anni ’80, divisero anche Jagger e Richards.

La sua musica era come il suo stile: precisa, ricercata, mai appariscente, mai pensata per esaltare il proprio ruolo ma sempre finalizzata solo alla creazione di un suono omogeneo e originale dell’intera band. Keith Richards lo adorava e non lo ha mai nascosto: «Il migliore con cui abbia mai suonato». Non era solo un modo di dire. È stato lui stesso a raccontare che sul palco si metteva sempre vicino al batterista, in modo da formare una specie di originalissima sezione ritmica formata essenzialmente dalla batteria e dalla sua chitarra invece che, come in praticamente tutte le altre band, dal basso e dalla batteria. Il «marchio di fabbrica» degli Stones, quel che ha reso la loro musica unica e diversa da tutte le migliaia di grandi e piccoli gruppi rock che si sono formati e dissolti nei quasi sessant’anni nei quali gli Stones sono stati l’anima del rock’n’roll.