«Scrivo di quello che conosco e Drifting from Town to Town è qualcosa di cui potrei parlare per ore. Sono stato on the road per quasi sessant’anni. E trasformare questa esperienza che ho nella testa in una canzone, è il mio mestiere». Così Charlie Musselwhite presenta uno dei brani più emozionanti del recente disco Mississippi Son, pubblicato dalla Alligator. La canzone che celebra la vita errante del bluesman è un implicito inno al valore dell’hobo nella cultura del blues. Ha un battito a dir poco cardiaco che viene generato dalla sezione ritmica composta da Barry Bays al basso e Ricky «Quicksand» Martin alla batteria. I due permettono al leader di dilaniare il cuore di chi ascolta grazie a quanto riesce a tirar giù con voce, chitarra e armonica. Puro blues tradizionale, esattamente come il resto dell’album con il quale Musselwhite fa nuovamente centro. Come questo sia accaduto, lo si comprende ascoltando quanto abbia da dire: una lunga narrazione che partendo dalle comunità rurali del Mississippi che lascia da bambino assieme alla famiglia, fa sosta nell’età della formazione a Memphis, Tennessee, per poi acquisire esperienza, carattere e valore a Chicago. Ognuno di questi passaggi è presente nella registrazione di Mississippi Son. E l’inizio, arriva direttamente dal quartiere popolare di Westwood, Memphis, in cui l’adolescente Charlie sognava attaccato a una radio nella sua stanza. Hobo Blues e Crawling King Snake, raccontano questo: «In famiglia per molto tempo non abbiamo avuto la televisione, non potevamo permettercela. Ma c’era la radio che trasmetteva degli spettacoli polizieschi e western. Io mi sdraiavo in terra ad ascoltare e usavo l’immaginazione per ‘vedere’ quello che raccontavano. Era un esercizio molto creativo. La notte mi sintonizzavo sulla WLAC di Nashville e la XERF da Ciudad Acuña, nello stato di Coahuila, in Messico, che non avendo le stesse restrizioni delle nostre stazioni, aveva un segnale così potente da giungere fino da noi a Memphis. Dalla XERF arrivava la musica ranchera e dalla WLAC il rhythm’n’blues, ma non per tutta la notte. A un certo punto sopraggiungeva il blues ed era bellissimo essere sintonizzati e ascoltare John Lee Hooker a chitarra e piede battente… volevo suonare come lui. Anche Memphis aveva ottime radio: la notte c’era Rufus Thomas che aveva per sigla Hootin’ the Blues di Sonny Terry. Era incredibile! Adoravo guidare lungo Beale Street nelle notti estive, con i finestrini abbassati e la radio a palla con Sonny. Non provate a farlo adesso: su Beale Street all’epoca si poteva guidare, ora, dopo una certa ora, non più! E amavo il gospel della KWEM, dove suonavano registrazioni fatte in chiesa. Andavo a quegli incontri non per entrare alla funzione, ma perché mi piaceva parcheggiare vicino alla tenda e bere una birra mentre ascoltavo la musica. C’era una gran confusione: le persone parlavano in maniera incomprensibile e si rotolavano a terra… era fantastico, lo adoravo».
Lasciata la città adagiata sulle sponde del Mississippi, Musselwhite arriva a Chicago. La melodia migliore che racconta il suo rapporto con la Windy City è Remembering Big Joe, uno strumentale dove l’autore si esibisce unicamente alla chitarra, rammentando il mentore e amico Big Joe Williams con il quale visse assieme: «A Chicago, Big Joe ed io dormivamo su due brandine nel seminterrato del negozio di dischi Jazz Record Mart, che in quegli anni era anche la base della Delmark Records, dove lavoravo facendo pacchi di vinili da spedire. Ma feci a pugni col fondatore Bob Koester e di conseguenza, andai altrove. Trovai lavoro in un altro negozio chiamato Old Wells Record Shop a Well Street, nella zona di Old Town. Il titolare Bill Shivers, che negli anni Quaranta e Cinquanta ebbe il più grande negozio di dischi posseduto da un afroamericano nel South Side, in quel momento guidava un taxi di giorno e gestiva il negozio la notte. Solitamente ero lì, assieme a molti altri personaggi: drogati, artisti, musicisti, poeti e pittori. Di conseguenza mi trasferii da quelle parti. Big Joe, che in quel momento era fuori città, al ritorno decise di spostarsi da me. Non gli piaceva per niente Bob Koester, quindi diventammo nuovamente coinquilini a Old Town, nel retro del negozio. Era il 1963. La nostra situazione ebbe una svolta inattesa. Alla fine della strada dell’Old Wells c’era un piccolo bar di quartiere chiamato Big John’s. Era un posto dove non vi era musica, ma quel 4 luglio tutto cambiò: qualcuno venne a chiederci se Big Joe si fosse trasferito in zona. Lo cercavano perché credevano fosse un cantante folk. Chiesero a Joe di esibirsi per la festività e lui mi esortò a suonare assieme. La serata andò benissimo e riempirono la cassa, chiedendoci di tornare la sera successiva e quella dopo ancora: fu così che ottenemmo un ingaggio regolare e il pubblico, probabilmente più per Joe che per me, continuò ad aumentare. Una sera Mike Bloomfield, che era spesso lì ad ascoltarci, chiese di suonare il vecchio pianoforte del bar con noi. Ne uscì fuori una divertente jam session. Quando Big Joe si dovette allontanare per qualche tempo da Chicago chiamai Mike che passò alla chitarra. Aggiungemmo un bassista e un batterista e le cose presero il volo. C’era così tanta gente che i proprietari abbatterono una porta per allargare il locale. Gli altri club nel North Side cominciarono ad accorgersi dei lauti guadagni e fiutarono l’affare. Noi parlammo con gli amici musicisti, Little Walter, Muddy Waters e Howlin’ Wolf, che si proposero e fu così che la scena sud della città si spostò in quella nord. Tutto grazie a quella notte del 4 luglio in cui ero assieme a Big Joe».
Musselwhite ha vissuto in pieno l’eta dell’oro del Chicago Blues, dapprima come comprimario e progressivamente, da protagonista. La lunga gavetta avuta tra North e South Side, esce in pieno in Blues up the River, brano in cui le riflessioni sul fiume Mississippi la fanno da padrone, mentre il groove è totalmente dentro la Chicago degli anni Sessanta. Stessa cosa dicasi per When the Frisco Left the Shed e Blues Gave Me a Ride. Proprio in quest’ultima, i toni sembrano farsi autobiografici, quando Musselwhite canta «Ora se il blues parte per te/Non salteresti a bordo?Puoi dimenticare tutti i tuoi problemi/e rotolare giù per la strada». È in effetti quello che è accaduto al bluesman che a Maxwell Street, l’epicentro african american della città, ha appreso i segreti del mestiere buoni per il palco, ma sopratutto fuori da quest’ultimo: «Maxwell Street per me è stata una scuola. Era selvaggia, cruda e sincera. E la domenica mattina eravamo tutti lì. Verso le nove uscivamo in strada per suonare fino alle due del pomeriggio. Solitamente, eravamo due armonicisti, io e John Wrencher: uno di noi allo strumento e l’altro, mentre camminavamo tra la folla, raccoglieva le offerte. Ho suonato con gente come Johnny Young, John Lee Granderson e il mio amico Robert Nighthawk. Eravamo abituati a trovare soluzioni per avere opportunità. Ad esempio, avevamo una prolunga che usciva dalla cucina dall’appartamento di una signora che ci prestava la corrente fino al suo cortile dove tenevamo il concerto. Dividevamo con lei le monete che la gente lasciava nelle offerte mentre ci esibivamo. E poi ancora, spostandoci, andavamo a suonare alla Maxwell Street Radio. E dalla strada, passavamo in posti che hanno fatto la storia, come il Pepper’s Lounge dove Muddy Waters e Little Walter erano di casa. Diventandone parte noi stessi».

 

LA BIOGRAFIA
Charlie Musselwhite, classe 1944, nasce a Kosciusko, nella contea di Attala, zona centrale dello stato del Mississippi. La sua discografia è sterminata, oltre trenta lavori a sua firma più una infinita serie di partecipazioni a vario titolo. Una selezione delle sue opere non può prescindere dal fulminante esordio Stand Back! Here Comes Charley Musselwhites’s South Side Band (1967). Prolifico il periodo degli anni Settanta con Louisiana Fog (1968), Memphis, Tennessee (1969), Goin’ Back Down South (1974), The Harmonica According to Charlie Musselwhite (1978). Notevole la ripresa nel 1999 con il riuscito esperimento cubano di Continental Drifter che diede il via alla seconda e luminescente parte della sua carriera, da cui segnaliamo Sanctuary (2004) e Delta Hardware (2006). Applausi anche per il sodalizio con Ben Harper in due pubblicazioni, in particolare Get Up! del 2012.