Era nato in un posto bello e difficile dell’estremo sud-ovest, Nogales, là dove l’Arizona, in un battito di ciglia, e a millecento metri sul livello del mare, è già Messico. Perché esiste una Nogales a stelle e strisce e una Nogales, stato di Sonora, adiacente, che fa parte del Messico. Come due facce di una medaglia. Chi ha in mente le orribili storie del muro che Trump ha in ogni modo caldeggiato e favorito, per impedire ai poveracci dell’America latina di trovare una vita un po’ migliore in quella che si autodichiara «terra delle opportunità» di qui deve passare. Da Nogales, il posto dove esattamente cent’anni fa nacque Charles Mingus. Nogales si chiama così perché un tempo era pieno di alberi di noci nere: e quei frutti, nella loro caparbia volontà di resistere agli urti con una corazza dura, per poi infrangersi in una miriade scheggiata di piccoli pezzi e mettere a nudo il fragile gheriglio di vita all’interno, di Mingus sono stati quasi metafora. Perché Mingus, uno dei dieci compositori più grandi che le note afroamericane del Novecento abbiano donato alla collettività tutta del mondo è stato una persona dura e fragile. Con quella che Wilhelm Reich avrebbe definito una «corazza caratteriale» sempre allerta, salvo prodursi, all’improvviso, in gesti eclatanti di una dolcezza languorosa, e rinnegare gli avvampanti sbotti d’ira che lo possedevano.

TEATRO DELLE PASSIONI
Così è anche la sua musica: un «teatro delle passioni» che mette in scena, ripartendola sui musicisti chiamati a farne parte, una sorta di urticante commedia umana che è palcoscenico puro delle emozioni, da un lato, del raziocinio e del controllo, dall’altro. Mingus, e sin da ragazzino, è stato quello che l’amico critico Nat Hentoff ha ben definito come «una caldaia delle emozioni». Sempre sul punto di esplodere, di traboccare, di innescare incendi o sommergere d’acqua la fiamma. Esorcizzando in uno scatto furioso, ferino e teatrale le sue e le nostre paure, in lui messe a nudo anche autodistruttivamente. Tanto da intitolare un suo disco (l’unico nella storia in cui le note di copertina siano firmate da uno psichiatra) Me, Myself and Eye, un gioco di parole (ma neppure troppo un esercizio meramente ludico) che metteva in chiaro le diverse personalità che gli vivevano dentro, tenute a bada quando la sua musica funzionava. Regalando capolavori emotivi e razionali assieme alla gente. Quelli che riascoltiamo ancora oggi.
Mingus, oggi, avrebbe cent’anni. Era stato un bambino sgraziato e sbeffeggiato, con quel testone, le gambe tozze e storte, le spalle strette, ma, soprattutto, con la maledizione del colore della pelle in una società nata sull’assortimento cromatico delle epidermidi, e che, per sciagura dei più fragili, sulle gradazioni cromatiche aveva costruito un presunto e idiota assetto valoriale. Mingus era il prodotto di geni diversi, un padre nero, una madre svedese che aveva ascendenze indiane native e cinesi. «Negro mezzo giallo color merda», lo apostrofavano nel ghetto di Watts, Los Angeles, dove era cresciuto. Presto orfano di madre, la matrigna lo portava bambino alle incandescenti, passionali funzioni religiose della Holiness Church: il fremito blues, la carica del gospel, la teatralità delle funzioni lo folgorano, gli lasciano un segno profondo. Cresce in una famiglia assai musicale, tutti suonano. Il giovane Mingus trova subito conforto nella musica: fa studi classici, suona benissimo il violoncello (strumento che regalerà a Mingus il «dono della voce» al contrabbasso, per usare le parole di Charlie Haden), e bene il pianoforte, si innamora delle complesse, cupe atmosfere del tardo romanticismo, e così prova a scrivere, ma già aveva avuto una sua personalissima folgorazione, ascoltando alla radio i saettanti brani dell’Orchestra di Duke Ellington.
Per raggranellare soldi suona il rhythm and blues del popolo, altro tassello base per la riscoperta della nervatura più fisica e afro delle sue note successive, ha un ingaggio con Louis Armstrong, piuttosto burrascoso, poi con Red Norvo e Tal Farlow. Lì, con quel trio, sperimenta cosa vuol dire avere quella pelle di un colore che non piace a nessuno: ha sposato una donna bianca, ma quando sono in tour la signora deve passare per compagna di uno due musicisti bianchi, sennò sono guai.

ERA BEBOP
In California Mingus familiarizza con le atmosfere avventurose e spericolate del West Coast Jazz, un ambito di sperimentatori veri che purtroppo il marketing ha venduto al mondo più o meno come «jazz del disimpegno per feste eleganti», poi arriva a New York nel ’50, in piena era bebop: la sa suonare benissimo quella musica astratta e velocissima, con la sua cavata dal timing implacabile, ma in fin dei conti non gli interessa.
Gli interessa di più la ricerca austera di Lennie Tristano. Anche se è lui il bassista che inciderà con Charlie «Bird» Parker, Dizzy Gillespie, Max Roach e Bud Powell il clamoroso Greatest Jazz Concert Ever in Canada, nel 1953, canto del cigno bebop. Proprio con Max Roach Mingus fonda la Debut, attiva tra il ’52 e il ’57, coraggiosa ma effimera etichetta di documentazione della nuova musica: il primo disco di Paul Bley lì viene pubblicato. Poi è la volta del Jazz Composer’s Workshop, laboratorio creativo dove si sperimenta con la politonalità, con la libera improvvisazione, con il contrappunto. Nel ’53 Mingus è chiamato a far parte dell’ochestra del suo idolo, Ellington: il carattere burrascoso del bassista entra subito in collisione diretta con lo sferzante razzismo del trombonista Juan Titzol, finisce a male parole e in rissa, Ellington lo licenzia con l’elegante sorriso sulle labbra di sempre.
Nel ’56 arriva il primo capolavoro, Pithecanthropus Erectus: una suite che parte dagli esordi dell’uomo e arriva al vicolo cieco dell’America razzista. È una sorta di nuovo e concitato «teatro della memoria» musicale, il Mingus degli studi classici cede la mano al geniale conduttore di session a braccio, su segnali convenuti, poche indicazioni orali, pochissima scritta e molta libera espressione.
Lo spirito «churchy» comincia a riaffiorare. E il tempo si sgancia dall’isocronia classica del jazz e fluttua anche libero in accelerando e rallentando. Diventerà uno snodo estetico-esistenziale, per Mingus: che con la sua comunità di musicisti da lì in avanti dirigerà una sorta di «coro delle voci» strumentali.
Ma c’è anche dell’altro, ad esempio un magnifico esperimento di incontro tra la poesia dei Beat e il jazz in The Clown (che contiene anche la sferzante Haitian Fight Song, dedicata alla prima repubblica nera al mondo fondata da ex schiavi) e il possente Tijuana Moods, ricordo del suo Messico di confine, dove affiorano strutture di lunghezza indeterminata, quasi ad libitum, profumi etnici, ancoraggi modali che dilatano la musica verso una trance sovreccitata e corposa.

RICORDI GOSPEL
Il 1959, «l’anno che cambiò il jazz», è anche merito di Mingus, accanto a Ornette Coleman, Dave Brubeck, Miles Davis, Bill Evans, Mingus che in un paio d’anni inanella una serie di capolavori irruenti e perfetti al contempo. Ci sono la ricerca e il ricordo del gospel, il camerismo e le unghiate bluesy, l’amore per Fats Waller ed Ellington, la sprezzante marcetta Fable of Faubus contro il governatore dell’Arkansas Orval Faubus (ma senza testo: censurato, riapparirà più avanti, proibito chiamare per nome e cognome i fascisti razzisti), le fughe in avanti del suo «teatro musicale in jazz». I dischi si chiamano Ah Hum, Mingus Dinasty, Blues & Roots. Non basta suonare capolavori con musicisti svettanti, però, (uno su tutti: Eric Dolphy, ma bisognerebbe citare anche Roland Kirk, Dannie Richmond, Booker Ervin, Jimmy Knepper…) se hai un carattere tutt’altro che accomodante. Così ti escludono dai giochi: e Mingus, cappello in mano per raccogliere i soldi delle offerte libere è uno dei «Newport rebels» che suonano – accanto e fuori dal confine del Festival ufficiale – uno dei primi «controfestival» della storia. Nel ’62 arriva Money Jungle, un trio da vertigine jazz con Duke Ellington in veste di pianista e Max Roach alla batteria, preludio al capolavoro The Black Saint & the Sinner Lady, in cui Mingus raggiunge punte di espressionismo totale, con lacerti di musica allucinata e in linea con la «new thing».
C’è poi un grande tour europeo, e l’amico Eric Dolphy decide di fermarsi nel Vecchio continente, e di lì a poco muore per un diabete trascurato: Mingus al funerale esce quasi di testa, da lì a poco un ricovero in ospedale, la crisi, l’uscita di scena. La rinascita arriva con Let My Children Hear Music, e con un gruppo nuovo, squassante: il sax di George Adams che ricorda i vecchi «shouters» texani, il pianoforte del «nero-pellerossa» Don Pullen che può suonare lirico, o inchiavardare feroci e dissonanti cluster di note, la tromba di fiamma di Jack Walrath.

L’ULTIMO PROGETTO
Ribolle ancora una volta la materia «bluesy» nel cuore di Mingus, tornano le dediche a Ellington e alla moglie Susan Graham, che l’ha rimesso in carreggiata. Nel ’76 scrive le musiche di Todo Modo, il film di Petri, ma non se ne fa nulla, l’anno dopo per l’ultima volta Mingus è in concerto e in tour. Poi le avvisaglie pesanti della sclerosi laterale multipla, Mingus lentamente perde la capacità di parlare e di muoversi. Fa in tempo a partecipare a un ultimo progetto suo, e a imbastire un progetto di smagliante bellezza con Joni Mitchell, la raffinata musa del folk rock californiano, da tempo vicina al jazz. Mingus l’avrebbe voluto acustico, ci sarà invece la crème dei musicisti elettrici, a cominciare da Pat Metheny, Jaco Pastorius, Wayne Shorter: sarà un capolavoro che Mingus non riuscirà ad ascoltare finito, e chissà che ne avrebbe detto. Però la sua figura appesantita e ferma sulla sedia a rotelle è ritratta da Joni Mitchell stessa con i suoi pennelli fatati in copertina, e il disco si chiama proprio così, Mingus. Susan le tenta tutte, per cercare di curare Mingus: si rivolge anche a una guaritrice messicana. Muore a Cuernavaca a cinquantasei anni il burrascoso e dolcissimo Mingus. Lo stesso giorno, cinquantasei capodogli si arenano sulla spiaggia. Le sue ceneri vengono disperse nel Gange dalla moglie. Il lavoro della sua vita, ricostruito postumo con amore da centinaia di fonti diverse ha un titolo suo premonitore: Epitaph.

FONTI SCRITTE E ALTRO, IL GENIO SECONDO IL GENIO
Diverse le fonti scritte che ci permettono un’attendibile ricostruzione della vita del grande bassista, pianista e compositore statunitense, e decisamente folta anche la pattuglia di documenti videoregistrati, a partire dal notevole Triumph of the Underdog, anche su dvd, che nel titolo riprende parte di quello dell’autobiografia di Mingus, e si avvale di molte testimonianze eccellenti, a partire dalle ex mogli del burrascoso jazzista, nonché di immagini anche rare di Mingus colto in diverse fasi della sua vita. Il testo base per approcciare la complessa, dimidiata (o tripartita!) personalità di Mingus è la sua autobiografia, tradotta in italiano come Peggio di un bastardo per Il Formichiere, poi Baldini e Castoldi, e oggi disponibile in una bella nuova edizione per la Sur nella collana BigSur. Trecentocinquanta pagine avvincenti ed eccessive, com’è stato eccessivo l’uomo che la pubblicò, con l’aiuto di Neil King, nel 1971. Verità e finzione a braccetto, iperboli e rivelazioni a cuore aperto, la terza persona per parlare di se stesso, la vita difficile e a tratti radiosa di un ragazzo problematico nato in un mondo più problematico ancora. Il titolo italiano, pur efficace, non mantiene tutte le sfumature di senso dell’originale, Beneath the Underdog: l’«underdog» non è solo il cagnaccio bastardo dal quale attendersi più ringhi che leccate benevole, ma anche, nel linguaggio delle scommesse ippiche, il cavallo che parte già svantaggiato: come i neri nell’America della discriminazione.
Diverse citazioni da quel testo ruggente si trovano nel primo testo pubblicato in Italia in tempi moderni su Mingus, Charles Mingus/L’uomo, le passioni, la musica , la poesia, scritto da Marco Piccardi nel 1992 per Stampa Alternativa/ Nuovi Equilibri, nella fortunata serie di piccoli libri Jazz People con un’introduzione del grande Max Roach, il terzo lato del triangolo da sogno che incise Money Jungle: Mingus, Ellington e Roach, appunto. Poco più che ottanta pagine, ma che forniscono un ottimo punto di partenza per affrontare l’intricata personalità di Mingus e la sua musica evolutasi nei decenni.
Nel 2002 per Nuovi Equilibri Stefano Zenni pubblica Charles Mingus/Polifonie dell’universo musicale afroamericano. Il musicologo di Chieti dipana con prosa limpida e, come al solito, autorevolezza scientifica riconosciuta, la complessa matassa musicale concretizzata nelle decine di opere mingusiane, in cui è possibile riconoscere, come strati geologici, diverse eredità musicali afroamericane e no, e uno dei più complessi rapporti tra oralità, improvvisazione e scrittura dell’intera vicenda del jazz. Ecco dunque, tra le altre, pagine sul Mingus sinfonico della giovinezza, sull’influenza del blues e del gospel, il Mingus «californiano» accostabile a tanti altri cercatori di timbri e soluzioni cameristiche diverse. Poi l’analisi del complesso «teatro polifonico» del Mingus della maturità, in cui le voci dei suoi solisti entrano come in una drammatico, cangiante palcoscenico teatrale afroamericano, i rapporti di Mingus col Messico, il titanico sforzo per portare a termine il conclusivo, mastodontico lavoro finale Epitaph, incompiuto e ricostruito ex post in tempi recenti.
Il giornalista musicale John F. Goodman è invece il curatore e autore di Mingus secondo Mingus. Interviste sulla vita e sulla musica, uscito per Minimum Fax nel 2014. Il range cronologico delle interviste raccolte è piuttosto limitato, tra il 1972 e il 1974, ma il testo, quasi cinquecento pagine, è decisamente corposo, come fu nella vita il mercuriale compositore. Tredici capitoli tematici, arricchito ognuno, come una sorta di integrazione o, al caso, di controcanto, da interventi di altre persone a commento, tra le quali Sue Graham, ultima compagna di Mingus, Teo Macero, il musicista produttore al centro di tanti progetti discografici centrali per il jazz. Mingus è più che mai se stesso, qui: alternando risposte appena bofonchiate e lapidarie a torrenziali divagazioni sulle avanguardie, il jazz classico, i grandi maestri, i suoi rapporti con le donne, con gli impresari, con il mondo scivoloso dello show business.
Ultimo arrivato, ma non per importanza, come si suol dire, è il testo di una firma ben nota di Alias, Flavio Massarutto, specialista dei rapporti che legano le immagini e l’iconografia in genere, con particolare attenzione per il fumetto, al jazz e alle musiche afroamericane tutte. Il saggista, qui, cede parzialmente il posto all’autore, che tratteggia una visionaria ma perfettamente attendibile ricostruzione del pensiero musicale, dei fatti quotidiani, delle idee, dei rapporti di Mingus con il mondo. In Mingus (Coconino Press Fandango) Massarutto ci mette la polpa vitale, e il distillato di centinaia di letture e ascolti sulla vicenda del tormentato e geniale compositore, l’altro autore, Pasquale Todisco, in arte Squaz, la pressante urgenza dei suoi disegni e dei suoi colori, una sinfonia davvero molto mingusiana che tocca tutte le sfumature dell’ocra, del marrone, del giallo, e che nasconde nelle forme arrotondate un’espressionistica e tagliente forza narrativa di tratto molto, molto mingusiana.