Charles King, autore di La riscoperta dell’umanità Come un gruppo di antropologi ribelli reinventò le idee di razza, sesso e genere nel XX secolo (Einaudi, traduzione di Dario Ferrari e Sarah Malfatti, pp.480. € 34,00), è un esperto di storia dell’Europa orientale, non un antropologo; eppure ha scritto un libro di grande interesse su un periodo fondamentale della storia dell’antropologia. Grazie ad accurate ricerche d’archivio ed estese consultazioni di documenti privati, libri, articoli specialistici, King non si è affatto limitato a imbastire un profilo biografico di Franz Boas e dei suoi allievi, ma attraverso la ricostruzione delle loro vite e delle loro ricerche è stato in grado di cogliere aspetti sorprendentemente duraturi della società americana.

King interpreta l’antropologia culturale di Boas e della sua scuola come una «rivoluzione» di tipo scientifico, storico, politico, in quanto andava decisamente contro mentalità e istituzioni fondate su presupposti come la supremazia della propria razza e della propria civiltà. La domanda allora è: quella rivoluzione ha avuto successo? È riuscita a bloccare le derive razziste della società americana? Oppure è il caso di constatare come il razzismo sia ancora attivo e alimenti buona parte della politica e dei movimenti della società americana attuale? Da questi interrogativi, oltre che dai suoi meriti intrinseci (scrupolosità della ricerca e ammirevole efficacia narrativa), scaturisce il grande interesse del libro: le battaglie condotte da Boas e dai suoi allievi, e dunque l’antropologia da loro costruita sulla base del concetto di «cultura», sono tuttora fonte di ispirazione.

Diversamente dalle normali storie del pensiero antropologico, King ci fa assistere come in un film a scene e azioni dei suoi protagonisti. Vediamo così il giovane Franz Boas nella Germania dell’Ottocento (era nato a Minden, da una famiglia ebraica, nel 1858), la sua movimentata formazione universitaria (fu protagonista di duelli tra universitari, che gli lasciarono dei segni sul volto), le sue letture appassionate di Johann Herder e di Alexander von Humboldt, e soprattutto – nel 1883 – il viaggio per mare da Amburgo alla Terra di Baffin. Tutto in effetti cominciò da lì, dal lungo soggiorno presso quelli che ben presto Boas si abituò a chiamare «i miei eschimesi».

Tra gli Inuit
«Più osservo i loro costumi» – scriveva – «più mi rendo conto che non ho alcun diritto di considerarli con disprezzo, dall’alto in basso. Dove, nel nostro mondo, è possibile trovare una simile ospitalità?». Tra gli Inuit imparò, sulla propria pelle, «la relatività di ogni cultura». Nonostante tutto il sapere acquisito nelle Università tedesche, Boas si rendeva conto della sua inesperienza e misurava la sua impotenza, come quando il vento sibilava furiosamente fuori dalla capanna e quando la sua sopravvivenza dipendeva dagli accorgimenti che soltanto i suoi amici Inuit gli potevano insegnare.

Alla difficoltosa introduzione di Boas nella società degli Stati Uniti d’America il libro dedica pagine istruttive: gli innumerevoli ostacoli incontrati fanno capire in concreto la distanza tra Boas e le istituzioni americane sorde alle sue idee innovative. Quando nel 1897 perviene alla Columbia University di New York, può finalmente dedicarsi all’insegnamento dell’antropologia, intesa non come teoria delle leggi generali del progresso dell’umanità, ma come studio delle singole culture locali, tutte meritevoli di essere indagate nelle loro peculiarità.

Da questo punto in avanti, il libro di King si allarga alle figure di antropologi che si formarono attraverso l’insegnamento di Boas. Curiosamente, però, egli dedica poche righe a figure di primo piano, quali Alfred Kroeber, Edward Sapir, Robert Lowie, Alexander Goldenweiser, Paul Radin, Melville Herskovits. Del tutto assente è Ashley Montagu, che pure si era addottorato con Boas nel 1937, e a cui si deve uno dei contributi critici più significativi elaborati dall’antropologia culturale a proposito del «mito della razza» (Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race, 1942).

Nonostante la loro importanza sul piano istituzionale, queste figure maschili vengono sacrificate, nel libro di King, a favore di quattro figure femminili, come se certe implicazioni della «rivoluzione» boasiana potessero essere meglio colte attraverso il percorso, senza dubbio più difficile, delle antropologhe: «Tutti i miei migliori allievi sono donne» aveva dichiarato Boas.

Le prime due – Ruth Benedict e Margaret Mead – sono molto note, mentre le altre due risultano più marginali. Di tutte apprendiamo nel dettaglio la formazione, le ricerche sul campo, le passioni intellettuali, gli amori, mentre negli Stati Uniti nel frattempo si adottavano misure restrittive contro gli immigrati, si assisteva al persistente interesse per l’eugenetica da parte dei politici e di buona parte della comunità scientifica, si sollevava la questione dell’entrata in guerra, del rapporto con la Germania hitleriana, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Non è difficile immaginare cosa abbia significato per il vecchio Boas vedere come «il razzismo avesse completamente trionfato nella sua terra d’origine» e come il nazismo – che aveva messo al rogo i suoi libri – perseguisse chiaramente lo sterminio degli Ebrei in Europa. Nel mese di dicembre 1942, gli alleati si decisero finalmente a denunciare questo crimine. Il 21 di quello stesso mese si concluse la vita di Boas: morì durante un pranzo ufficiale in onore di Paul Rivet, fondatore del Musée de l’Homme di Parigi, costretto a emigrare in America a seguito dell’occupazione tedesca.

Se durante tutta la lunga vita di Boas (descrivibile come un arco dall’Illuminismo tedesco al nazismo) il rapporto con la Germania fu inevitabilmente intenso, per le americane Benedict e Mead il problema non si poneva in quei termini. Tuttavia, le ricerche etnografiche cui si dedicarono sotto la guida di Boas (Benedict presso gli Zuni del Nuovo Messico, Mead a Samoa, Bali e diversi gruppi della Nuova Guinea) le portarono a intrattenere un rapporto altrettanto critico e instabile con la propria società.

Dettagli biografici
Non meno tormentato di quello di Boas, il destino delle sue allieve ruota intorno all’antropologia come dimostrazione vivida di «possibilità», non soltanto teoriche, ma anche esistenziali, come sperimentazione di modi diversi di intendere le relazioni sociali e personali. Tensione e conflitti con la collettività di appartenenza fanno parte della vita di Benedict e di Mead, i cui dettagli biografici King dispensa copiosamente, senza mai cadere nel pettegolezzo, nemmeno quando si sofferma sulle relazioni amorose tra Mead e Benedict, tra Mead, Reo Fortune e Gregory Bateson in Nuova Guinea.
Non per niente, Margaret Mead ebbe a dire che chi ha problemi con sé stesso si dà alla psicologia, chi ha problemi con la società si rivolge alla sociologia, chi ha problemi con sé stesso e con la propria società rischia di divenire antropologo.

Merito di Charles King è poi quello di fare conoscere due antropologhe meno note, ma non per questo meno significative: Zora Neale Hurston, un’afroamericana approdata al Barnard College, e Ella Cara Deloria, di origine dakota per parte di padre.

Hurston, la cui vita di antropologa sul campo – prima in Florida, poi ad Haiti – fu completamente dedicata a recuperare e rivitalizzare come “cultura” il folklore degli afroamericani, scoprì nell’antropologia di Boas la chiave per «mettere in discussione il dio delle etichette», a cominciare da quelle razziali.

Deloria si addentrò negli aspetti più minuti delle culture indiane, così da partecipare al grandioso progetto di Boas per il recupero e lo studio delle lingue degli Indiani del Nord America, tutto un mondo che esigeva di essere salvato «con la sua logica, le sue regole, la sua bellezza»: ne è testimonianza il suo Dakota Grammar, pubblicato nel 1941 con la prefazione di Boas.

Quando nel settembre del 1948 morì Ruth Benedict, assistita giorno e notte da Margaret Mead, Hurston e Deloria erano ormai lontane da New York: la prima in Florida, dove la sua vita si perse tra mille difficoltà, mille progetti, mille inediti; la seconda nel South Dakota, dove era impegnata a tenere in piedi la scuola della riserva indiana di Standing Rock.

Toccò quindi a Margaret Mead, pur non avendo mai avuto un ruolo strutturato nel dipartimento alla Columbia (lavorò invece per tutta la vita al Museum of Natural History), continuare la battaglia per l’antropologia iniziata dal suo maestro a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, una battaglia i cui punti fondamentali rimasero la relatività delle culture, la pluralità incomprimibile dei modelli in cui prende forma l’umanità e dunque l’invito a «rinunciare all’idea che tutta la storia conduca inesorabilmente fino a noi». Mead morì nel novembre 1978: la sua battaglia – ci fa capire il saggio di Charles King – è tutt’altro che conclusa.